Quando si
legge di erotismo i casi sono due: o si chiude il libro alla seconda pagina,
con uno largo e annoiato sbadiglio, o si avverte uno strano languore, che
scioglie le membra e arrossa le guance.
E se, nel
corso della lettura, non solo provo la curiosità di arrivare rapidamente alla
fine del primo capitolo ma sento pure l’impellente necessità di portare i figli
dai nonni (per indossare, o non indossare… a seconda delle preferenze, il baby doll comprato qualche giorno fa e
ben ripiegato nel secondo cassetto a destra), allora si può ben dire che quel
libro ha colto nel segno.
Così mi è
capitato con Emmanuelle, di
Emmanuelle Arsan.
Ho incontrato
Emmanuelle a 18 anni, quando mi dedicavo,
durante le ore di matematica – ebbene sì, lo ammetto ... –, all’approfondimento
di libri “proibiti”, quelli dai contenuti femministi, erotici o politici (tra
cui il Manuale di guerriglia urbana,
recuperato nella sezione locale dell’ex PCI durante un trasloco), solitamente ben
celati sotto il banco del liceo; e che spacciavo, generosamente, alle compagne.
Soprattutto a quelle che il sabato sfoggiavano il fazzolettone degli scout.
Tra i
capisaldi della mia educazione erotico-culturale c’è stato ovviamente la formazione
“sessuo-politica” di Rocco e Antonia, protagonisti del Porci con le ali della Ravera; a differenza loro, però, all’epoca la
sottoscritta era decisamente meno intraprendente. E le ali, loro erano ancora ben
lontane dall’essere spuntate.
Mi avvicinavo
così, timidamente, ad Emmanuelle; con
qualche senso di colpa, e sempre combattuta tra il desiderio di saltare le noiose
sequenze dialogiche e psicologiche per affrontare le assai più stimolanti
pagine narrative-descrittive (quelle sì, utilissime e imperdibili mappe del
corpo umano; almeno fino all’arrivo in televisione della serie animata Siamo fatti così…).
Come
rileggere questo romanzo oggi, dopo anni di pratica nella letteratura erotica e
lustri di corsi di autocoscienza collettiva improntati all’esegesi del Monologo della vagina? E può, Emmanuelle, essere ancora definito un
gioiello di erotismo squisitamente al femminile?
A mio avviso si
tratta di un libro pensato esclusivamente per un pubblico femminile, quello che
in fondo ama confrontarsi, ogni tanto, con una bella “supercazzola”
intellettualistica che consenta di giustificare l’osservazione dallo spioncino
di una qualche scena indiscreta.
Inizialmente
pubblicato clandestinamente (nel 1959), poi recuperato negli anni in cui si
bruciavano i reggiseni e si teorizzava l’amore libero, Emmanuelle si trasforma subito nella celebrazione della femminilità,
radiosa e raggiante, sfrontata e impertinente.
Le situazioni
di cui la fanciulla si ritrova protagonista ci appaiono un poco stereotipate.
L’amplesso ad alta quota con un bellissimo sconosciuto, a donne di mondo,
iscritte con soddisfazione al Mile High Sex,
non dice poi un granché di nuovo; mentre le scene lesbiche, quelle sì, sono
scritte talmente bene da farci pentire di non aver approfittato di
quell’occasione colla migliore amica. Dopo 10 anni dal rapporto Kinsey,
tuttavia, Emmanuelle rappresentava un
libro importante; un libro che finalmente svelava, alla fine degli anni ‘50, l’esistenza
dei sogni a luci rosse delle donne.
Da donna
spocchiosa, snob e poco incline all’evasione letteraria “senza se e senza ma”,
mi chiedo perché questo libro detenga ancora il titolo di romanzo erotico del
Novecento.
Trascurando le
arzigolate giustificazioni del piacere inseguito ad ogni costo, credo che la
caratteristica che rende Emmanuelle
un gioiello sia il dialogo, continuo e ininterrotto, con la tradizione
letteraria e filosofica d’inizio secolo.
Scrivere di erotismo
è infatti una delle cose più difficili da fare (è più semplice far piangere che
non far ridere, ça vas sans dire);
perché si rischia sempre di scadere nell’Harmony o nelle 50 sfumature: è un
attimo, baby…
La soluzione può essere quindi
quella di recuperare le atmosfere dannunziane, infarcirle di filosofia
superomistica nietzschana (come avviene in Emmanuelle,
grazie all’apporto fornito dal personaggio più ambiguo del romanzo) e lasciarsi
andare alla sensualità di atmosfere decadenti. Perché è difficile trovare un
romanzo che sia riuscito a giocare con un uguale souplesse colla raffinatezza delle sete impalpabili, del voyeurismo,
del classismo di una coppia francese dell’alta borghesia e colla poesia di un
fiume lento orientale. E ciò è fondamentale: se infatti viene meno l’atmosfera
inconsueta e straniante, da fumeria d’oppio, dove tutto è possibile (anche identificarsi
totalmente e senza rimorsi con la protagonista), il rischio diviene quello di precipitare
in Bambola (film di Bigas Luna, la
cui locandina mostrava una procace Valeria Marini seduta a cavalcioni su una
mortadella). Parbleu! Posso anche accettare la plebea mortadella,
ma solo se inserita tra due fette di pane…. non certo stretta tra le cosce di
una donna.
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