Consigli per una vita di coppia felice e per una singlitudine serena, senza troppi sensi di colpa.

giovedì 30 novembre 2017

La storia del mio matrimonio: ovvero ridatemi i miei 30 anni


A volte il mondo può sembrare un luogo ostile e sinistro. Ma credeteci quando diciamo che ci sono più cose buone che cattive. Dovete osservare con attenzione. E quella che magari appare una serie di sfortunati eventi, può, di fatto, essere il primo passo di un viaggio


Cosa succede quando una donna varca la soglia dei 30 anni
Ve lo dico io: puntuale come la bolletta del gas scatta l’orologino biologico. 
E se poco prima quella stessa creatura fatta di aria fresca non aveva occhi che per l’ultimo modello di scarpe, quello esposto in grande spolvero nella vetrina della boutique più costosa del centro cittadino, improvvisamente ella si accorge dell'esistenza di un mondo alternativo. Anzi, no... del "sottosopra" (chi ha visto Strange Things? Io, sì!). Un mondo fatto di passeggini colorati da un artista orbo, carrozzine accessoriate come un'auto sportiva di lusso e di pance troppo tonde per essere l'effetto di una condotta alimentare sregolata. Così passa dalle chiacchiere colle amiche e dalla minuziosa programmazione delle vacanze alle dotte disquisizioni sulle lune, l'influenza delle maree e sui giorni fertili. 
E la casa si riempie di riviste patinate, tutte ricolme di immagini di donne famose che sfoggiano, con orgoglio degno di un nobel per la biochimica, tanti pancini tondi tondi. Il cambiamento di stato ti è anche certificato dal comparire su facebook, nel riquadro in angolo, dove prima si pubblicizzava una destinazione esotica e assolata, della pubblicità dell’ultima carrozzina della nota marca per bimbi. Appena sopra alla notizia dei vantaggi impareggiabili offerti da una comoda guaina contenitiva post parto.
Insomma, non c’è più tregua. 
Tutto sembra cospirare contro di te, povera trentenne fino a quel momento rimasta ignara e felice. 
Ci si mette pure Vanity Fair, con l’articolo in cui si insegna a tornare perfettamente in forma dopo il parto. 
E il nuovo modello di donna? Ne vogliamo parlare? 
Ovvio, tutte come Amal Alamuddin (essì, la signora Clooney): più figa di prima, nonostante le due gemelle.
Quando hai un'età che varia dai trenta ai quaranta anni, rischi poi di diventare la vittima perfetta per la crudeltà di mamme, zie e cugine; le quali non sanno se compatirti o biasimarti alla notizia del tuo essere da poco tornata single.
Credetemi se vi dico che è del tutto inutile dare spiegazioni, ed è inutile raccontare loro che hai sbattuto fuori di casa lo stronzo nel momento in cui hai  scoperto nel suo telefonino la vagina spalancata e sorridente della tua vicina di casa.
Tua zia sarebbe capace di dirti che bisogna chiudere un occhio, e che gli uomini sono in fondo fatti così. E di portare pazienza, perché cambiano diventando padri.    
Voi non  ci crederete, ma quando io mi sono trovata in quella fase di età in cui la maggioranza delle donne inizia a sognare l’abito bianco (anche se il bianco mi sbatte in viso e non si intona al mio incarnato) io proprio non sapevo decidermi su quale uomo svegliare con un bacio alla mattina. Pertanto, in preda al dubbio amletico se fosse proprio necessario dividere il mio spazio vitale con un uomo, trovavo terribilmente irritante la curiosità morbosa sulla mia vita “dissipata” da parte dei parenti; così come trovavo patetici i loro tentativi di accasarmi con amici o colleghi di lavoro (una volta, addirittura, una zia acquisita insistette per presentarmi un suo amico, secondo lei adatto a me in quanto “artista e depresso”. Figuriamoci, sapeva pure leggere!).
Così, dribblando tra l’ennesimo tentativo di appuntamento al buio e le domande sempre più pressanti sul perché fossi così refrattaria ai legami seri, avevo inventato una serie di refrain di cui andavo fiera, decisamente scorretti e trasgressivi. 
La scusa migliore? 

Io e la mia compagna lesbica abbiamo in mente una maternità surrogata con sperma di un afro americano. Perché a noi piace la famiglia multietnica.

In preda allo sconforto per l’altrui mancanza di rispetto, ero giunta al punto di convincere me stessa che provavo una vera e propria repulsione per le donne gravide, ritenendo inoltre il parto una delle forme di violenza più gravi verso il corpo femminile.
Insomma. nella mia vita libera e libertina, priva di vincoli e orari, quasi apolide, ci stavo proprio bene.  Non l’avrei mai cambiata per nulla al mondo.
All’epoca, infatti, sceglievo coscientemente relazioni assolutamente a distanza, preferibilmente anche più di una in contemporanea proprio per non cadere nella trappola dell’innamoramento.
Guardate però: il mio comportamento irriverente nei confronti dell’amore era in realtà un atto di generosità verso i miei partners. Sapevo bene, infatti, di non essere tanto brava come fidanzata: troppo capricciosa, incostante nei sentimenti e terribilmente egoista. E all’anello al dito preferivo di sicuro un piercing all’ombelico. In coppia non davo il meglio di me e rischiavo sempre di scatenare guerre nelle famiglie altrui. Se uno dei miei fidanzati mi presentava ai suoi alla cena di Natale? Un disastro! Si finiva a discutere sulla fame del mondo davanti ad un trionfo di aragosta; a parlare di sfruttamento della prostituzione con uno zio attempato e single appena tornato da Cuba o del diritto dei deboli all’esproprio proletario con il suocero imprenditore. 
Due sono in particolare gli episodi scolpiti nella mia memoria, grazie ai quali ho capito che nel film Tutti assieme appassionatamente il ruolo di nuora non sarebbe mai stato mio. 
Il primo quando mi sono presentata in jeans e maglione ad una festa di fine anno in villa dove era d’obbligo l’abito lungo e l’altra quando ho litigato con il padre del mio ragazzo di allora accusandolo di  appropriazione indebita di materiali archeologici (nella vetrinetta del salotto buono, infatti, era in mostra una collezione di vasi apuli non dichiarata alla Soprintendenza).
Così, se a trent’anni avevo deciso che la fedeltà era un’imposizione borghese, e preferivo dividere l’appartamento con due ragazzi (giocando a The Dreamers di Bertolucci) prima o poi può succedere comunque di incontrare, una notte d’estate sui colli bolognesi, qualcuno più matto di te con cui sfidare il tuo personale guinness del numero di orgasmi in un giorno.
E se la sfida la vinci, ricordati che il premio previsto può essere un bonus “paghi due e prendi tre”.   
Così, all’improvviso, con una pancia che sembrava un’anguria, senza tanti preamboli o preparativi, ho deciso di convolare a nozze nel giro di 4 mesi. Non sto scherzando. L’ho fatto sul serio e pure con vestito bianco e velo (perché se si fa qualcosa di importante occorre farla bene).
E mentre lievitavo, fregandomene della linea e dei chili di troppo, mi sono ritrovata in un amen davanti ad un consigliere comunale a pronunciare il mio sì mentre le note di kalashnikof di Bregovich risuonavano alte nella sala matrimoni del Comune di Ravenna.


To be continued… 

martedì 21 novembre 2017

Un inno alla femminilità: La quarta estate


Chi tra noi donne può dirsi realmente indipendente, totalmente libera dal condizionamento esercitato dall’occhio maschile? Temo che le mani alzate sarebbero poche, ed una parte di queste forse si alzerebbe solo perché alla “sala operativa centrale” – sì, insomma, sul modello del cartoon Inside out – non è stata ben compresa la domanda.
Io quella mano non riuscirei ad alzarla, anche perché negli anni della mia infanzia l’uomo sedeva sempre a capotavola, aveva il diritto di parlare per primo ed invariabilmente mi zittiva con occhiacci ogni qualvolta aprivo bocca. Anche a causa di questa atmosfera da Albero degli zoccoli ho probabilmente cullato, pressappoco in quel tempo di nostra vita mortale che collega la prima elementare ai 10 anni, il desiderio di indossare una slanciata tonaca da suora.

Zitti, laggiù… in terza fila!

Inutile che vi diate di gomito, perché a Monza non sono davvero mai stata; e del Manzoni amavo piuttosto le descrizioni infernali del lazzaretto e della peste.

Se vogliamo poi dirla tutta, da un’eventuale mia bianchissima benda di lino non sarebbe mai fuoriuscito il ricciolo ribelle: perché, quando ci si traveste per onorare una giocosa ed allegra serata bondage, lo si fa col verso, senza trascurare i particolari e senza cadere nei tranelli dei vestiti made in China. Comunque, per tornare a noi, io mica frequentavo la chiesa di Fidenza. Non ricordo neppure di avere ricevuto i sacramenti (in famiglia non si era particolarmente devoti, e quando si partecipava ad una qualche funzione in genere – ahimé – si trattava di un funerale). Ho quindi maturato la convinzione che quella estemporanea vocazione mistica nascesse dal rifiuto per quel modello di donna: una femmina come mia nonna, religiosamente dedita alla pasta sfoglia (molto bene!) e all’improbo compito di accudire un marito capriccioso (molto male!). Non fatevi però idee sbagliate. Ho amato nonna, e l’ho sempre ritenuta una gran donna; ma non sopportavo quel suo continuo adattarsi alle regole.
Dunque non avevo predisposizione per i rosari, l’incenso e la preghiera (mentre sul cilicio ammetto di essermi in seguito abbastanza ricreduta). Ciò nonostante sono sempre stata attratta dal chiostro. Che fosse perché frequentavo la scuola elementare delle suore Canossiane? Può essere… Si trattava di un istituto a regime cattolico, non molto diversa dalla scuola raccontata da Albinati (alzi la mano chi è arrivato alla fine…, okkio che i salti di capitolo non valgono…). Avevo una maestra laica, ma molto molto molto religiosa, che iniziava la giornata in classe facendo recitare le preghiere. Nel caso fossimo state brave, non sbagliando nemmeno una parola del Credo, dell’Atto di fede, del Salve o Regina e del Magnificat, poteva anche scapparci – wow – un bel Camminerò sulla tua strada Signor (Urca, che fortuna!). Così, dopo avere rapidamente svolto il problemino di matematica ed avere altrettanto celermente declamato la poesia imparata a memoria, si poteva anche andare al cuore ludico della mattinata e raccontarci dei fioretti di San Francesco, dell’estasi di santa Teresa e della graticola di San Lorenzo. Ah, anche il punto a croce faceva parte del programma scolastico … perché nella vita non si sa mai.
Le dita punteggiate di piccoli fori arrossati testimoniano di come la sartoria non fosse nel mio destino. Ero però decisamente innamorata delle storie delle sante, soprattutto di quelle mistiche e abbonate a morti dolorosissime (Santa Lucia, Santa Agata, Santa Cristina, e pure Santa Barbara). All’epoca pensavo che queste donne m’intrigassero per la loro caparbietà, per la decisione nel difendere fino alla morte il proprio credo, senza arrendersi all’altrui volontà. Oggi ho invece la certezza che quelle vicende tanto splatter mi attiravano in realtà per la capacità di esaltare, senza alcuno schermo dato dalle convenzioni sociali, l’essenza stessa del nesso vittima/carnefice (un rapporto quasi esclusivamente declinato, guarda caso, nel senso della schiava e del padrone). E che dire del fatto che l’agiografia, nel descrivere la sofferenza, insista sempre e solo su quella vissuta dalle sante, quasi godendo del racconto di ogni più piccolo spillone conficcato nella carne? I santi invece no, perché loro non paiono soffrire ed il racconto delle torture assume invariabilmente l’asetticità di un episodio di CSI Miami. Loro, i maschi con l’aureola in capo, al massimo sono travagliati da visioni mistiche accompagnate a fastidiose stigmate; è vero, ogni tanto ce n’è uno che perde la testa, ma quella stessa protuberanza riccioluta viene subito recuperata e finisce sotto il braccio di un corpo decollato. Ed insieme passeggiano come se niente fosse. Insomma, questo era allora il mio mondo: una casa di anziani, con nonni e bisnonni a bisticciare, e le suore canossiane, rinchiuse dietro a quell’alto muro che faceva da barriera tra la strada, luogo di tremenda perdizione, ed il cortile della scuola.   
Quale la ragione dietro al riemergere dalla memoria del ricordo della mia scuola elementare?
A causa di un libro, I suppose
E questo libro è La quarta estate, di Paolo Casadio (edizioni Piemme).
Mentre lo leggevo, pagina dopo pagina, mi pareva infatti di avvertire l’odore intenso del detersivo per i pavimenti; così simile a quello che le narici colgono quando ci si avvicina ad un ospedale (oppure ad un convento).  
Il romanzo di Casadio, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, racconta l’amicizia tra le donne. Nel caso specifico le suore dalmatine, le addette al sanatorio comunale per tubercolosi ed Andrea Dalvina Zanardelli, il medico scelto dalla comunità in nero per sostituire il vecchio dottor Frega (uno che il colore nero ha amato moltissimo, al punto da impazzire credendosi Benito Mussolini). Nella piccola comunità femminile, apparentemente sospesa al di là del tempo e della tremenda guerra che infuria attorno, si incrocia un piccolo sciame di api operaie, tutte affaccendate attorno ai voleri della schietta e solida suor Oliva. Nel gineceo Dalvina trova conforto, oltre che un riparo da un mondo che, come Cronos, sta mangiando i suoi stessi figli. Ma la presenza di Dalvina, donna libera di essere femmina, sconvolge le regole consolidate dall’abitudine. Quella femminilità appena accennata, che per il fatto stesso di poter essere appare tanto perturbante, risveglia dunque i ricordi di cose taciute, i desideri repressi e le immagini non permesse. Se suor Viliana si limita ad accarezzare di nascosto i vestiti della dottoressa, come per ascoltarne fugace l’odore, altre suore si limitano a guardarla da lontano, come rapite dai suoi gesti gentili e malinconici. Vi è infine chi, sfidando il fuoco dell’inferno, decide di rivelarle tutto il suo amore. Ognuna di queste donne velate ha una storia da raccontare: c’è chi ha scelto il convento per vocazione, c’è chi invece è suora perché così ha deciso dalla famiglia, c’è chi ha trovato in quel luogo un pasto caldo e sicuro. Il sanatorio è come un’isola popolata di donne che amano restare “tra loro” e affollata di poveri bambini da salvaguardare. E Dalvina, diventata medico in un’epoca in cui alle donne non era dato essere altro che madri e mogli, appartiene in fondo a questo mondo. Il romanzo, garbato e raffinato, segue così il filo di un’apparente immobilità, tra bagni di sole, bambini scrofolosi e piccole avventure quotidiane. In un’Italia che sta per cambiare, per sempre.         


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sabato 11 novembre 2017

E' tutta una questione di stile

Siamo davvero certe che alle donne spocchiose dispiaccia l’uomo deciso e arrogante, quello cioè che non deve chiedere mai
Argomento spinoso, indubbiamente. Specie se il tuo mondo è popolato di amiche militanti e femministe, oltre che di aristocratiche signore (con cane carlino d’ordinanza, abbinato alla barca a vela ormeggiata nella darsena); tutte comunque pervase dalla stimmate della radical chic, sempre controcorrente e fieramente snob. 
Felicemente immersa tra queste amabilissime streghe ci sono io, mosca bianca per la capacità di avventurarmi in storie amorose per lo meno azzardate. 
Io, che adoro innamorarmi, incontrando – chissà poi perché? Che ci sia del dolo? – solo lupi cattivi da denti aguzzi e luccicanti.
Helen Lam
Le guardo ed un poco pure le invidio, dal momento che i loro problemi hanno spesso a che fare - invidia, invidia - con la scelta della giusta borsa di haute couture. Tuttavia, spesso tali amiche fascinose si rivolgono a me; e mi chiedono consiglio, domandandomi se sia opportuno aggiungere il focoso palestrato alla già ricca collezione di giovani amanti. In questo caso sono piuttosto ferma, invero molto spocchiosa (forse perché non ho mai amato l'idea di fungere da Amerigo Vespucci dell’ammmore). Allora rilancio, e m'informo a proposito dell’intellettuale, coetaneo e tanto carino, con cui le ho viste chiacchierare poco tempo fa. Sì, proprio quello che cita tenute e vitigni come se fossero canti della Divina Commedia... 
Di solito, nove volte su dieci, mi rendo conto di avere sbagliato il tiro: il loro viso infatti si distorce in un ghigno schifato e rivelatore. 
Allora comprendo.... 
Hanno ragione loro, perché l'esperienza ha insegnato loro a diffidare di tale prototipo di seduttore. Troppe volte sono state infatti abbandonate al momento di pagare il conto; e troppe volte sono state lasciate sole da colui che, dopo aver per l'intera serata parlato di sé e della sua opera (che non può essere esposta a New York perché un giorno l’impegnato artista ha bruciato una bandiera americana in piazza), si è improvvisamente eclissato. Hai voglia ad aspettarlo… 
Evidentemente il bel cavaliere oscuro, da mezzora asserragliato nel cesso, ha qualche problema colle ostriche di cui si è strafogato… 
Alla fine, povere penelopi esasperate, ferite dalle occhiate pettegole degli altri commensali, le mie amiche finiscono per estrarre la fedele mastercard, porgendola alla cassa colla stessa dignità con cui Maria Stuarda offriva il collo al boia.
Et voilà!
Proprio quando stanno per abbandonare al triste destino il gentile accompagnatore, evidentemente ingoiato dal pagliaccio sbucato dal tubo di scarico della toilette, eccolo ricomparire trionfante. E con il sorriso stampato in viso, a quel punto l'eroe dell'epica battaglia invariabilmente pronuncia la frase: Grazie cara, ma non dovevi; mi raccomando, però: la prossima volta tocca a me!

Applausi! Trenta minuti di ovazione in piedi!

Devo ammettere che, ascoltando tali racconti, un po’ sogghigno; perché avrò certo fatto scelte imbarazzanti, alternando maschi in eskimo ad artisti appena usciti dai centri sociali, ma su una cosa mai e poi mai ho transatto: se invito a cena qualcuno, allora pago io; se qualcuno mi propone una serata assieme, allora io sono sua ospite
Trattasi tuttavia di un falso problema, almeno per me; non mi sono cioè mai troppo interessata delle regole d’ingaggio rispetto all’azione dell’estrarre il bancomat.
L’ansia me l’ha sempre piuttosto prodotta l’aspettativa rispetto al dopocena.
E se l’affascinante mio accompagnatore si rivela un imbranato adolescente al momento di sganciare il reggiseno? Allora non c’è che una strada da percorrere: abbozzare una qualsiasi scusa e lasciare rapidamente il palcoscenico, perché il soggetto non ha evidentemente conseguito gli obiettivi minimi e deve ancora consolidare le competenze. Che si ripresenti quindi al mio cospetto solo dopo avere fatto la giusta e doverosa pratica!
Come? Non avete ben compreso il mio punto di vista?
Bene, approfondiamo allora la questione.
Nel caso si esca in amicizia – okkio, che non ci siano troppi desideri sottointesi – allora non si pone problema: essendo completamente a mio agio, mi sento libera di sparare cazzate, crogiolandomi nella proverbiale logorrea e nel turpiloquio da scaricatore di porto. La serata alcolica finirà quindi seguendo un copione rigoroso, che prevede canzoni ululate a squarciagola, imbarazzanti balletti ska o lacrimoni che riflettono le immagini di un vecchio film romantico.
Se però il dopo cena prefigura un incontro ravvicinato tra il lui di cui si diceva ed il mio completo intimo, allora state certi che diverrò più esigente della Miranda interpretata da Meryl Streep (dunque, alla larga tutti i giovani amanti inesperti; come pure i farfuglianti Woody Allen e gli aggressivi Schwarzenegger). 
Giunti al “dessert del dessert” bisogna insomma sapere “dove” e “come” mettere le mani, preferibilmente in silenzio, senza chiedere il permesso e senza ansimare che mi si vuole “aprire come una cozza”. E poi, sia chiaro: dal momento che il mio corpo non è un pezzo di carne qualsiasi (se proprio volessimo stare all’analogia gastronomica non esiterei a paragonarmi ad un gustoso filetto di manzo di kobe), ed è provvisto di molteplici zone erogene, oltretutto rivestite di costosa seta nera, allora pretendo professionalità. Quindi la passione ne suffit pas, perché occorre anche dimostrare attenzione per l’estetica dell’amplesso (il gesto deve essere cioè armonioso, gentile come un passo a due di Roberto Bolle). 
Ecco allora qualche utile consiglio, onde evitare il calo del desiderio nella donna (soprattutto nella sottoscritta):

1.  Non pronunciare mai l’orrida frase: Ma questo coso come si leva? (sappiate che l’ultimo modello del reggiseno La Perla ha l’apertura sul davanti…);
2.   Ricordare che non è necessario spogliare completamente la partner, soprattutto se questa ha superato di qualche anno la ventina (oppure, a scelta, non esibisce orgogliosa una quarta siliconata);
3.  Trattenersi dal gettarsi a capofitto sulla zona “nota”, la stessa che noi donne spocchiose curiamo come fosse un’aiuola; ogni tanto ci farebbe infatti piacere ricevere attenzioni anche al resto. Ecché diamine, esistono pure il collo, l’incavo delle braccia, le caviglie e l’interno coscia…

Piccola avvertenza finale
quando indossiamo una parigina (per i maschi meno avezzi, trattasi di una carezzevole sottoveste), vi abbiniamo sempre un perizoma oppure una mutandina brasiliana. Le stesso che, per prima cosa fate volare via sotto l’impeto del desiderio. 
Ora… per evitare che vadano perse, costringendo la vostra partner a rincasare furtivamente priva di un fondamentale indumento, si consiglia di non gettarle come viene. 
Anche perché correte anche un altro rischio… E se, rovistando al fondo del letto, tra il piumone e le lenzuola, alla disperata ricerca della mutanda perduta, si finisse per ritrovare il capetto di pizzo nero lasciato dalla precedente ospite
Non sarebbe chic; no, no, no….     
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#spocchiosamente #ilariacerioli #laperla #biancheriaintima #maquestocosocomesileva #storiediamiche #mutadinabrasiliana

        
                                     



venerdì 3 novembre 2017

Modella per un giorno. A Roma con Turi Avola ed il suo favoloso mondo

Ilaria Cerioli
In un pomeriggio di autunno, col treno sparato a mille verso Termini, percepisco le piccole rughe che segnano il mio viso. All’improvviso il mio pensiero si blocca, gelato dall’idea che potrebbe anche esistere, da qualche parte, nascosto sullo scaffale di una fascinosa profumeria, un miracoloso fondotinta. Che magari consenta di nascondere quell’orrido segno di bisturi che campeggia tronfio sul mio ventre di madre.   
Non ho più vent’anni, ripeto come una litania durante il viaggio.
Non ho forse lasciato un po’ troppo spazio a questo barlume di compiaciuta vanità? Permettendogli di correre spensierato per le assolate praterie del desiderio di vita?
Non ho più vent’anni, mi sono ripetuta poche ore fa, quand’ero ancora nella mia stanza di Ravenna, intenta a selezionare le sete ed i pizzi da sistemare con cura nella valigia.
Subito però arriva in aiuto una vocetta, dal profondo della mia pancia, che mi rassicura; e dice sicura: don’t worry baby, …hai ancora un bel volto, e pure col corpo te la cavi niente male!
Lo so, lo so… quante volte ho sentito ripetere che Anna Magnani andava fiera delle sue rughe, io però ne farei oggi volentieri a meno. Anzi no, mi correggo: io le mie rughe le odio, ad una ad una; ed ho iniziato ad odiarle fin dal momento della loro prima comparsa, quando ho virato la boa dei trenta (appena qualche giorno fa, sia ben inteso). Le odio talmente tanto da avere loro dato un nome, come si affibbia un dispregiativo epiteto al nemico che ti vuole male. Quella in mezzo alla fronte è la Bastarda, quelle che irriverenti e gemelle si accampano agli angoli delle labbra sono la Zoccola e la Maledetta. Alle zampette a baffo di gattino, che si nascondono attorno agli occhi, spetta il titolo di Grandissime Fetenti.   
Ma chi ho voluto ingannare, quando ho acconsentito a farmi fotografare? Perché qualcuno, dotato di senno e di crudeltà non mi ha fermato, ricordandomi che il ritrovarsi davanti ad un obiettivo può trasformarsi, specie per una ex belloccia, in una nemesi degna di uno sgradevole girone dell’Inferno dantesco; una vendetta malignamente ordita da parte di chi pensa che la donna matura debba necessariamente indossare un mezzo tacco e una gonna al ginocchio.
No, no, no…
Ecco che dal ricciolo che copre l’orecchio esce un diavoletto simpatico, dalla chioma perfetta e ben ornata di impeccabili extensions; un diavoletto che urla gioioso come occorra fregarsene delle preoccupazioni, perché – se dio vuole – hanno inventato photoshop! Infatti, se così non fosse, saremmo sommersi di immagini di pancette dovute a stipsi e di primi piani gommosi. Inoltre, non sto mica preparandomi a posare per Novella 2000; io, Ilaria Cerioli da Fidenza, sto per offrire il mio corpo – la mia anima no, quella è bella che andata da tempo… – all’arte raffinata di un fotografo pluripremiato. Per lui certo la bellezza canonica non conterà, perché ciò che importa è l’essere capaci di esprimere altro dalla perfezione delle forme. E poi quel che ocorre è l’essere fotogenici, e su questo punto sono sicura di potere giocare al meglio le mie carte.
Il treno è partito, e nella tratta da Bologna a Firenze riesco ancora a fingere indifferenza. Mi dico che sto scendendo a Roma soprattutto per realizzare una fantastica intervista a Turi Avola, e solo secondariamente per dare il corpo in pasto alla bestia travestita da macchina fotografica. Poi il paesaggio che scorre dal finestrino muta, e le arrotondate colline mi dicono che sono ormai a pochi chilometri dalla meta. Allora inizio una dotta conversazione col vicino, intrecciando rudimenti di fotografia e di Estetica, scivolando allegramente sui presupposti teorici e fenomenologici dell’arte… e tutto ciò – lo so benissimo, perché quando voglio sono una spietata critica di me stessa – solamente per rassicurarmi: quasi che l’intervista non mi interessasse più, perché l’intera mia anima è ora avviluppata dal terrore dell’obiettivo digitale. E comunque, se proprio non dovessi venire bene, avrò in ogni caso avuto l’occasione di conoscere un uomo intelligente e arguto, di sicuro affascinante. Il che non guasta mai... E poi quel che conta è l’intervista!
Seee… a chi la voglio raccontare?
Così l’ansia e la curiosità crescono, mentre il parallelepipedo di Termini mi sta già accogliendo.  
La valigia pesa una tonnellata, ma non è un limite. Quella valigia contiene infatti tutto quel che serve a fare di Ilaria una nuova donna: un po’ giornalista e un po’ blogger, e forse anche un po’ modella.Et voilà, sono arrivata allo studio di Turi Avola (https://turiavola.carbonmade.com/).
Turi Avola
Tutto è semplice, sia l’intervista (professionale e appassionata) che lo shooting (il giorno dopo, tra sottovesti di seta e corpetti in pizzo). Tra l’altro colgo l’occasione per girare, allegra e spensierata, per il quartiere del Pigneto, lasciandomi cullare dalla sua atmosfera bohemienne, ricordando Pasolini e celebrando la vita con un bicchiere in mano.
Mi ricordo del resto ancora quando ho scoperto le opere di Turi Avola, per caso qualche tempo prima alla Galleria Nero, dove esponeva Excessus Mentis. È stata una vera folgorazione, lo ammetto; tanto da indurmi a volere conosce l’autore. Quale ne è stato il motivo? Senza dubbio il riconoscimento di un’affinità di riferimenti culturali, perché anch’io amo il Surrealismo di Man Ray, le atmosfere allucinate di Tim Burton e l’immagine della donna sospesa tra sacro e profano, tra sensualità trasgressiva e candida innocenza. Cosa dire di più? Sono emozionata di fronte allo spettacolo dell’ossimoro, così evidente ed esasperato nella retorica visiva di Avola. Del resto sono una bilancia, coi piatti evidentemente mal tarati.   
Ma è giunta finalmente l’ora, di smettere i panni della professionale reporter per indossare quelli, lo ammetto assai più succinti, di una distratta Amélie d’inizio Novecento; di un angelo in bustier e autoreggenti, che pare aver gioisamente smarrito la strada del paradiso. Senza mostrare alcun pudore, ma lasciandomi guidare dall’esperienza dell’uomo che sa; perché posare è in fondo come fare del buon sesso: deve esserci sintonia tra fotografo e modella, per evitare che lo shooting si trasformi nella meccanica riproposizione della veloce missionaria del sabato sera. Mi rivedo adesso nello studio, seduta come Emmanuelle, ammiccante e scomposta sulla poltrone di velluto rosso, guardando con desiderio sconfinato il fotografo. Perché l’uomo dietro a quella macchina altri non è che un amante da sedurre, ammaliato dall’assoluta mia sottomissione al suo volere. Ho così giocato all’innocenza perduta, ballando a piedi nudi sulle note rosa e cremisi di Edith Piaf.  
Ma dimmi un po’, cara Cerioli, quanto ti sei divertita?
Un mondo, un mondo intero! Soprattutto quando mi sono, a poco a poco, resa conto che non esisteva più alcun confine tra la realtà e la finzione; perché in quel momento io ero solo femminilità, niente altro che pura femminilità. Così penso debba essersi sentita anche Alda Merini, quando offrì il suo corpo all’occhio meccanico di Giuliano Grittini. Orgogliosa di quel suo corpo di donna impudica, colle grosse e bianche mammelle esposte. Ricordo che molti l’accusarono di pornografia… Ma io sorrido di tanta stupidità, perché la pornografia è ben altro e nulla ha a che fare con l’esposizione fiera della propria carne sgraziata, imperfetta, eppure terribilmente vera e attraente. L’immagine di Alda, colla camicia aperta e le labbra rosse, mi ha così accompagnato e resa forte, rendendo polvere e volo di mosca il parlare malevolo di chi ha cercato di sminuirmi e di ferirmi; ha folgorato e reso cenere le voci di chi affermava che una madre, se è tale, non può farsi fotografare in autoreggenti. Come se non fosse anche una femmina. Del resto sono nata donna, e solo dopo sono diventata madre.

E se non mi sono mai preoccupata di nascondere il quadro che un giorno un’amica pittrice mi regalò, con me ritratta completamente nuda, colla mano appoggiata, lieve e fugace, appena sopra all’incavo delle cosce, non vedo il motivo per cui ora dovrei rattristarmi di essere divenuta un angelo. Per un pomeriggio, in uno studio fotografico appena fuori Roma.

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