Chi tra noi donne può dirsi realmente
indipendente, totalmente libera dal condizionamento esercitato dall’occhio maschile? Temo che le mani
alzate sarebbero poche, ed una parte di queste forse si alzerebbe solo perché alla
“sala operativa centrale” – sì, insomma, sul modello del cartoon Inside out – non è stata ben compresa la
domanda.
Io quella mano non riuscirei ad
alzarla, anche perché negli anni della mia infanzia l’uomo sedeva sempre a capotavola,
aveva il diritto di parlare per primo ed invariabilmente mi zittiva con
occhiacci ogni qualvolta aprivo bocca. Anche a causa di questa atmosfera da Albero degli zoccoli ho probabilmente cullato,
pressappoco in quel tempo di nostra vita mortale che collega la prima
elementare ai 10 anni, il desiderio di indossare una slanciata tonaca da suora.
Zitti, laggiù… in terza fila!
Inutile che vi diate di gomito, perché
a Monza non sono davvero mai stata; e del Manzoni amavo piuttosto le
descrizioni infernali del lazzaretto e della peste.
Se vogliamo poi dirla tutta, da un’eventuale
mia bianchissima benda di lino non sarebbe mai fuoriuscito il ricciolo ribelle:
perché, quando ci si traveste per onorare una giocosa ed allegra serata bondage, lo si fa col verso, senza
trascurare i particolari e senza cadere nei tranelli dei vestiti made in China. Comunque, per tornare a
noi, io mica frequentavo la chiesa di Fidenza.
Non ricordo neppure di avere ricevuto i sacramenti (in famiglia non si era
particolarmente devoti, e quando si partecipava ad una qualche funzione in
genere – ahimé – si trattava di un funerale). Ho quindi maturato la convinzione
che quella estemporanea vocazione mistica nascesse dal rifiuto per quel modello di donna: una femmina come mia
nonna, religiosamente dedita alla pasta sfoglia (molto bene!) e all’improbo
compito di accudire un marito capriccioso (molto male!). Non fatevi però idee
sbagliate. Ho amato nonna, e l’ho sempre ritenuta una gran donna; ma non
sopportavo quel suo continuo adattarsi alle regole.
Dunque non avevo predisposizione
per i rosari, l’incenso e la preghiera (mentre sul cilicio ammetto di essermi in seguito abbastanza ricreduta). Ciò
nonostante sono sempre stata attratta dal chiostro. Che fosse perché
frequentavo la scuola elementare delle suore Canossiane? Può essere… Si
trattava di un istituto a regime cattolico, non molto diversa dalla scuola raccontata
da Albinati (alzi la mano chi è
arrivato alla fine…, okkio che i salti di capitolo non valgono…). Avevo una
maestra laica, ma molto molto molto religiosa, che iniziava la giornata in classe
facendo recitare le preghiere. Nel caso fossimo state brave, non sbagliando
nemmeno una parola del Credo, dell’Atto di fede, del Salve o Regina e del Magnificat,
poteva anche scapparci – wow – un bel Camminerò
sulla tua strada Signor (Urca, che fortuna!). Così, dopo avere rapidamente
svolto il problemino di matematica ed avere altrettanto celermente declamato la
poesia imparata a memoria, si poteva anche andare al cuore ludico della
mattinata e raccontarci dei fioretti di San Francesco, dell’estasi di santa
Teresa e della graticola di San Lorenzo. Ah, anche il punto a croce faceva
parte del programma scolastico … perché nella vita non si sa mai.
Le dita punteggiate di piccoli fori
arrossati testimoniano di come la sartoria non fosse nel mio destino. Ero però decisamente
innamorata delle storie delle sante,
soprattutto di quelle mistiche e abbonate a morti dolorosissime (Santa Lucia,
Santa Agata, Santa Cristina, e pure Santa Barbara). All’epoca pensavo che
queste donne m’intrigassero per la loro caparbietà, per la decisione nel difendere
fino alla morte il proprio credo, senza arrendersi all’altrui volontà. Oggi ho invece
la certezza che quelle vicende tanto splatter mi attiravano in realtà per la
capacità di esaltare, senza alcuno schermo dato dalle convenzioni sociali, l’essenza
stessa del nesso vittima/carnefice
(un rapporto quasi esclusivamente declinato, guarda caso, nel senso della
schiava e del padrone). E che dire del fatto che l’agiografia, nel descrivere
la sofferenza, insista sempre e solo su quella vissuta dalle sante, quasi godendo
del racconto di ogni più piccolo spillone conficcato nella carne? I santi invece
no, perché loro non paiono soffrire ed il racconto delle torture assume invariabilmente
l’asetticità di un episodio di CSI Miami.
Loro, i maschi con l’aureola in capo, al massimo sono travagliati da visioni
mistiche accompagnate a fastidiose stigmate; è vero, ogni tanto ce n’è uno che perde
la testa, ma quella stessa protuberanza riccioluta viene subito recuperata e
finisce sotto il braccio di un corpo decollato. Ed insieme passeggiano come se
niente fosse. Insomma, questo era allora il mio mondo: una casa di anziani, con
nonni e bisnonni a bisticciare, e le suore canossiane, rinchiuse dietro a quell’alto
muro che faceva da barriera tra la strada, luogo di tremenda perdizione, ed il
cortile della scuola.
Quale la ragione dietro al riemergere
dalla memoria del ricordo della mia scuola elementare?
A causa di un libro, I suppose…
E questo libro è La quarta estate, di Paolo Casadio (edizioni Piemme).
Mentre lo leggevo, pagina dopo
pagina, mi pareva infatti di avvertire l’odore intenso del detersivo per i
pavimenti; così simile a quello che le narici colgono quando ci si avvicina ad
un ospedale (oppure ad un convento).
Il romanzo di Casadio, ambientato a
Marina di Ravenna nel 1943, racconta l’amicizia tra le donne. Nel caso specifico le suore dalmatine, le addette
al sanatorio comunale per tubercolosi ed Andrea Dalvina Zanardelli, il medico
scelto dalla comunità in nero per sostituire il vecchio dottor Frega (uno che il
colore nero ha amato moltissimo, al punto da impazzire credendosi Benito
Mussolini). Nella piccola comunità femminile, apparentemente sospesa al di là
del tempo e della tremenda guerra che infuria attorno, si incrocia un piccolo
sciame di api operaie, tutte affaccendate attorno ai voleri della schietta e
solida suor Oliva. Nel gineceo Dalvina trova conforto, oltre che un riparo da
un mondo che, come Cronos, sta mangiando i suoi stessi figli. Ma la presenza di
Dalvina, donna libera di essere femmina, sconvolge le regole consolidate dall’abitudine.
Quella femminilità appena accennata, che per il fatto stesso di poter essere
appare tanto perturbante, risveglia dunque i ricordi di cose taciute, i desideri
repressi e le immagini non permesse. Se suor Viliana si limita ad accarezzare
di nascosto i vestiti della dottoressa, come per ascoltarne fugace l’odore, altre
suore si limitano a guardarla da lontano, come rapite dai suoi gesti gentili e
malinconici. Vi è infine chi, sfidando il fuoco dell’inferno, decide di rivelarle
tutto il suo amore. Ognuna di queste donne
velate ha una storia da raccontare: c’è chi ha scelto il convento per
vocazione, c’è chi invece è suora perché così ha deciso dalla famiglia, c’è chi
ha trovato in quel luogo un pasto caldo e sicuro. Il sanatorio è come un’isola popolata
di donne che amano restare “tra loro” e affollata di poveri bambini da salvaguardare.
E Dalvina, diventata medico in un’epoca in cui alle donne non era dato essere
altro che madri e mogli, appartiene in fondo a questo mondo. Il romanzo,
garbato e raffinato, segue così il filo di un’apparente immobilità, tra bagni di
sole, bambini scrofolosi e piccole avventure quotidiane. In un’Italia che sta
per cambiare, per sempre.
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continuo ad apprezzare tantissimo il tuo stile, il tuo malizioso umorismo colto. Ho apprezzato molto la tua visione dei santi, sai quanto l'argomento mi affsacini. Ho trovato qiesto articolo più "sensoriale" mi piacciono le immagini olfattive tattili che esprimi.
RispondiEliminagrazie
Eliminaun altro bel pezzo con stile...
RispondiEliminagrazie
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