Consigli per una vita di coppia felice e per una singlitudine serena, senza troppi sensi di colpa.

martedì 21 novembre 2017

Un inno alla femminilità: La quarta estate


Chi tra noi donne può dirsi realmente indipendente, totalmente libera dal condizionamento esercitato dall’occhio maschile? Temo che le mani alzate sarebbero poche, ed una parte di queste forse si alzerebbe solo perché alla “sala operativa centrale” – sì, insomma, sul modello del cartoon Inside out – non è stata ben compresa la domanda.
Io quella mano non riuscirei ad alzarla, anche perché negli anni della mia infanzia l’uomo sedeva sempre a capotavola, aveva il diritto di parlare per primo ed invariabilmente mi zittiva con occhiacci ogni qualvolta aprivo bocca. Anche a causa di questa atmosfera da Albero degli zoccoli ho probabilmente cullato, pressappoco in quel tempo di nostra vita mortale che collega la prima elementare ai 10 anni, il desiderio di indossare una slanciata tonaca da suora.

Zitti, laggiù… in terza fila!

Inutile che vi diate di gomito, perché a Monza non sono davvero mai stata; e del Manzoni amavo piuttosto le descrizioni infernali del lazzaretto e della peste.

Se vogliamo poi dirla tutta, da un’eventuale mia bianchissima benda di lino non sarebbe mai fuoriuscito il ricciolo ribelle: perché, quando ci si traveste per onorare una giocosa ed allegra serata bondage, lo si fa col verso, senza trascurare i particolari e senza cadere nei tranelli dei vestiti made in China. Comunque, per tornare a noi, io mica frequentavo la chiesa di Fidenza. Non ricordo neppure di avere ricevuto i sacramenti (in famiglia non si era particolarmente devoti, e quando si partecipava ad una qualche funzione in genere – ahimé – si trattava di un funerale). Ho quindi maturato la convinzione che quella estemporanea vocazione mistica nascesse dal rifiuto per quel modello di donna: una femmina come mia nonna, religiosamente dedita alla pasta sfoglia (molto bene!) e all’improbo compito di accudire un marito capriccioso (molto male!). Non fatevi però idee sbagliate. Ho amato nonna, e l’ho sempre ritenuta una gran donna; ma non sopportavo quel suo continuo adattarsi alle regole.
Dunque non avevo predisposizione per i rosari, l’incenso e la preghiera (mentre sul cilicio ammetto di essermi in seguito abbastanza ricreduta). Ciò nonostante sono sempre stata attratta dal chiostro. Che fosse perché frequentavo la scuola elementare delle suore Canossiane? Può essere… Si trattava di un istituto a regime cattolico, non molto diversa dalla scuola raccontata da Albinati (alzi la mano chi è arrivato alla fine…, okkio che i salti di capitolo non valgono…). Avevo una maestra laica, ma molto molto molto religiosa, che iniziava la giornata in classe facendo recitare le preghiere. Nel caso fossimo state brave, non sbagliando nemmeno una parola del Credo, dell’Atto di fede, del Salve o Regina e del Magnificat, poteva anche scapparci – wow – un bel Camminerò sulla tua strada Signor (Urca, che fortuna!). Così, dopo avere rapidamente svolto il problemino di matematica ed avere altrettanto celermente declamato la poesia imparata a memoria, si poteva anche andare al cuore ludico della mattinata e raccontarci dei fioretti di San Francesco, dell’estasi di santa Teresa e della graticola di San Lorenzo. Ah, anche il punto a croce faceva parte del programma scolastico … perché nella vita non si sa mai.
Le dita punteggiate di piccoli fori arrossati testimoniano di come la sartoria non fosse nel mio destino. Ero però decisamente innamorata delle storie delle sante, soprattutto di quelle mistiche e abbonate a morti dolorosissime (Santa Lucia, Santa Agata, Santa Cristina, e pure Santa Barbara). All’epoca pensavo che queste donne m’intrigassero per la loro caparbietà, per la decisione nel difendere fino alla morte il proprio credo, senza arrendersi all’altrui volontà. Oggi ho invece la certezza che quelle vicende tanto splatter mi attiravano in realtà per la capacità di esaltare, senza alcuno schermo dato dalle convenzioni sociali, l’essenza stessa del nesso vittima/carnefice (un rapporto quasi esclusivamente declinato, guarda caso, nel senso della schiava e del padrone). E che dire del fatto che l’agiografia, nel descrivere la sofferenza, insista sempre e solo su quella vissuta dalle sante, quasi godendo del racconto di ogni più piccolo spillone conficcato nella carne? I santi invece no, perché loro non paiono soffrire ed il racconto delle torture assume invariabilmente l’asetticità di un episodio di CSI Miami. Loro, i maschi con l’aureola in capo, al massimo sono travagliati da visioni mistiche accompagnate a fastidiose stigmate; è vero, ogni tanto ce n’è uno che perde la testa, ma quella stessa protuberanza riccioluta viene subito recuperata e finisce sotto il braccio di un corpo decollato. Ed insieme passeggiano come se niente fosse. Insomma, questo era allora il mio mondo: una casa di anziani, con nonni e bisnonni a bisticciare, e le suore canossiane, rinchiuse dietro a quell’alto muro che faceva da barriera tra la strada, luogo di tremenda perdizione, ed il cortile della scuola.   
Quale la ragione dietro al riemergere dalla memoria del ricordo della mia scuola elementare?
A causa di un libro, I suppose
E questo libro è La quarta estate, di Paolo Casadio (edizioni Piemme).
Mentre lo leggevo, pagina dopo pagina, mi pareva infatti di avvertire l’odore intenso del detersivo per i pavimenti; così simile a quello che le narici colgono quando ci si avvicina ad un ospedale (oppure ad un convento).  
Il romanzo di Casadio, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, racconta l’amicizia tra le donne. Nel caso specifico le suore dalmatine, le addette al sanatorio comunale per tubercolosi ed Andrea Dalvina Zanardelli, il medico scelto dalla comunità in nero per sostituire il vecchio dottor Frega (uno che il colore nero ha amato moltissimo, al punto da impazzire credendosi Benito Mussolini). Nella piccola comunità femminile, apparentemente sospesa al di là del tempo e della tremenda guerra che infuria attorno, si incrocia un piccolo sciame di api operaie, tutte affaccendate attorno ai voleri della schietta e solida suor Oliva. Nel gineceo Dalvina trova conforto, oltre che un riparo da un mondo che, come Cronos, sta mangiando i suoi stessi figli. Ma la presenza di Dalvina, donna libera di essere femmina, sconvolge le regole consolidate dall’abitudine. Quella femminilità appena accennata, che per il fatto stesso di poter essere appare tanto perturbante, risveglia dunque i ricordi di cose taciute, i desideri repressi e le immagini non permesse. Se suor Viliana si limita ad accarezzare di nascosto i vestiti della dottoressa, come per ascoltarne fugace l’odore, altre suore si limitano a guardarla da lontano, come rapite dai suoi gesti gentili e malinconici. Vi è infine chi, sfidando il fuoco dell’inferno, decide di rivelarle tutto il suo amore. Ognuna di queste donne velate ha una storia da raccontare: c’è chi ha scelto il convento per vocazione, c’è chi invece è suora perché così ha deciso dalla famiglia, c’è chi ha trovato in quel luogo un pasto caldo e sicuro. Il sanatorio è come un’isola popolata di donne che amano restare “tra loro” e affollata di poveri bambini da salvaguardare. E Dalvina, diventata medico in un’epoca in cui alle donne non era dato essere altro che madri e mogli, appartiene in fondo a questo mondo. Il romanzo, garbato e raffinato, segue così il filo di un’apparente immobilità, tra bagni di sole, bambini scrofolosi e piccole avventure quotidiane. In un’Italia che sta per cambiare, per sempre.         


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4 commenti:

  1. continuo ad apprezzare tantissimo il tuo stile, il tuo malizioso umorismo colto. Ho apprezzato molto la tua visione dei santi, sai quanto l'argomento mi affsacini. Ho trovato qiesto articolo più "sensoriale" mi piacciono le immagini olfattive tattili che esprimi.

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