Consigli per una vita di coppia felice e per una singlitudine serena, senza troppi sensi di colpa.

domenica 9 giugno 2019

Una donna speciale: essere Slave

photo by Hikari Kesho


Le cose le capiamo solo quando le dobbiamo capire”. Citando le sue parole, vi presento Akiko, una donna dagli occhi grandi. Sembra uscita da un quadro di Margaret Keane.
Mi racconta senza indugiare in troppi convenevoli che si è avvicinata alla cultura BDSM alcuni anni fa. Come tanti ha scoperto questa sua passione casualmente: infatti prima di 50 sfumature non aveva mai sentito parlare né di Dom né di corde; non aveva mai cercato il dolore e probabilmente l’idea della sottomissione ad un uomo le avrebbe causato l’orticaria come a tante di noi. Eppure, nonostante i puristi del BDSM, considerino quella trilogia un basso prodotto commerciale, Akiko mi confida di essere rimasta affascinata dalle scene di sottomissione e come sia iniziato, da quei fotogrammi, per lei il viaggio verso la consapevolezza.  Ovviamente non si è fermata a 50 sfumature. Poiché è una donna molto intelligente e volitiva, si è dedicata per circa un anno allo studio approfondito della filosofia BDSM, cercando riferimenti culturali più interessanti e maturi rispetto al noto cofanetto. Mi confida, infatti, che in Italia, rispetto ad altri paesi europei, manca un approccio serio e rigoroso al BDSM e, spesso, chi pratica lo fa in modo superficiale, più come gioco occasionale che come credo: “l’approccio è diverso, è vero, io penso che spesso non sia serio e rigoroso, ma penso anche che ognuno lo debba vivere come vuole, basta che sia sempre consensuale; manca la formazione, chi si avvicina a questo mondo spesso non trova figure di riferimento che lo addestrino e parlo sia di sub che di Master”.
Chi è Akiko? Con un certo compiacimento mi sussurra che è considerata una perfetta slave per il suo Dom. Le chiedo prima di tutto cosa intende con slave e quali sono i termini di base da sapere per avvicinarsi al BDSM. “Prima di tutto distinguiamo tra domina e dominante. Io, ad esempio, amo essere sottomessa da un dominante, ma altre possono diventare sub di dominae. La domina si riconosce subito per atteggiamento regale e non si deve assolutamente confondere con una prodomme. Le vere Mistress, cioè le padrone che comandano solo per il piacere di farlo, sono davvero poche; purtroppo molte ormai hanno fini di lucro. Una mistress ovviamente può avere slave uomini o donne”.  Le chiedo cosa intenda per risvolto economico: “Molti slave pagano le loro Mistress (o fanno loro regali)”. Questo aspetto merita un approfondimento e in rete trovo che la legge è abbastanza chiara. È sufficiente entrare nel sito www.bdsmitalia.orgil Prodomming è prostituzione se comprende pratiche fetish o sadomaso di tipo sessuale.” Però, se non è facile trovare una vera Mistress per uno slave, sembra che anche i Laether o Dom siano piuttosto inflazionati negli ultimi tempi. È vero che dopo 50 sfumature il BDSM è uscito dal suo cono d’ombra ma, se da una parte il successo della trilogia ha reso gli italiani più spregiudicati, dall’altra parte ha decisamente semplificato uno stile di vita che non è assolutamente banale. Infatti il BDSM serio (non quello “famolo strano”) si caratterizza per una serie di regole e codici di comportamento che presuppongono prima di tutto un dominante (con obblighi di cura verso chi decide di donarsi) e in seconda istanza una totale dedizione in chi si sente sub. La prima regola per una slave come Akiko, è quella di essere assolutamente consenziente e riconoscere la superiorità del suo padrone /a: ”una slave deve fare tutto quello che chiede il suo Master. Ovviamente ci si accorda prima su cosa lui può chiedere a lei. Il bravo Dom sa perfettamente quale tipo di sub ha davanti e cosa può o non può chiederle di fare.” Da quello che Akiko racconta sembra quasi che tra i due si venga a creare un legame molto intenso e profondo. Un gioco di intenti, provocazioni e di limiti infranti. “un bravo dom aiuta la sua slave a superare le proprie barriere, a crescere e a sbocciare come persona”.
Sembra forse più vicino ad un percorso iniziatico, una sorta di ritualità antica, quasi magica. Che una sessione di BDSM sia itinerarium ad Infera? Un cammino verso il basso per vedere la luce con occhi nuovi.
Come avviene una giornata tipo per una slave? “se con il suo Dom ha un rapporto 24/7 lui le può dire anche come vestirsi per quella giornata. La slave, inoltre, si contraddistingue perché indossa un collare, simbolo del proprio status”. Esistono vari libri sull’argomento e molti siti che spiegano in termini chiari la ritualità e il simbolismo dello stile BDSM. Ovviamente una slave non deve indossare un collare autonomamente, ma le deve essere donato dal Dom. Per questo il collare è sempre di proprietà del dom e viene considerato un grande onore per chi lo cince al collo. Quando si sfoggia? “In genere per una sessione BDSM o ogni volta venga imposto alla sub”. Akiko prosegue dicendo “Il dom si deve prende cura di te sia dal punto di vista fisico e mentale. In sua balia, tu come slave sei in totale benessere. È sempre la slave che decide di cedere il controllo. Per quanto mi riguarda il mio posto preferito è quello accucciata ai suoi piedi. Solo lì mi sento davvero al sicuro”. Ammetto di essere molto colpita dalle sue parole. Racconta la sua esperienza con una serenità che, per chi è cresciuta con una madre femminista e la convinzione che la libertà della donna sia cosa sacra, è difficile da comprendere. In realtà sembra che essere slave sia un privilegio. Darsi totalmente e in modo disinteressato, diventa per alcune di noi una forma di liberazione dalle catene della quotidianità. Tempo fa, parlando con un amico famoso rigger mi ha spiegato che per alcune donne vivere questa esperienza di sottomissione è di grande gratificazione. Mostrare i segni di una legatura o i lividi violacei di una frusta o di una paddle ha a che fare con l’arte. I segni lasciati sul corpo creano arabeschi raffinati, simboli di un rapporto privilegiato. Quando una sub entra nell’antro del lupo ha già abdicato alla sua volontà e con estrema consapevolezza è pronta a concedersi al padrone.  Akiko aggiunge “Il tipo di comunicazione è assoluto. Perché, se lui domina, deve stare attento a mille particolari del mio corpo: a come sospiro, o gemo. o a come lo sto guardando mentre mi annoda una corda intorno. Deve avere una cura estrema del mio benessere per il semplice fatto che, mentre sono sotto sessione, il mio livello di adrenalina è talmente alto che rischio di non sentire il dolore”.
Mi chiedo quanto sia in effetti pericoloso. So bene che esistono parti del corpo che non possono essere immobilizzate per il rischio soffocamento, per questo ci devono essere segnali chiari che permettano al dom di comprendere rapidamente quando smettere.
Akiko è una Bunny, ossia ama il Bondage e in particolare trova estremamente eccitante farsi legare. Si è avvicinata alle corde nel 2018 con il suo primo maestro Davide. All’inizio mi confida che le facevano molto male, ma forse se pratichi Bondage mi viene da dire che questo è il significato del piacere estremo: trovare l’armonia perfetta tra il massimo dolore e il massimo piacere. Unire Inferno e Paradiso, che, a quanto pare, sono divisi da una sottile linea d’ombra.
“Occorre distinguere e comprendere il significato delle diverse performance” per questo motivo mi suggerisce di vedere i video di Tatiana Tereshchenko, le cui composizioni diventano quadri viventi di grande eleganza. Ma per Akiko cosa significa il Bondage? “ti rispondo come mi disse il mio maestro di corde: Tu vuoi che le corde ti portino via…per me le corde sono una cura. Avvolta, avvinta mi sento a casa”.
Mentre mi dice questo mi ricordo di avere letto tempo fa la poesia di Sibilla Aleramo “Oh palme delle mani” in cui il primo verso:
“oh palme delle mani iscritte di segni,
triangoli, rami, croci, stelle,
tutta la mia vita ch’è stata e sarà,
il punto ch’io ignoro della morte e non temo,
e altri, altri che sembrano di confitti
chiodi
ma intorno vi raggiano ali di gloria..”
per Akiko la bellezza esiste nel segno. Nel solco lasciato sul suo corpo, bianchissimo e morbido. In quella riga che traccia il corso di un nodo scorsoio, dal quale ha avuto piacere e sofferenza.  La sua poesia è un gemito soffocato. Un grido morto in gola che non fa paura, ma invoca “ancora”. E ancora Akiko desidera essere avvinta e sentire quel legame sottile tra rigger e slave. “La corda è un cordone ombelicale, che crea una connessione tra lui e te. Lui attraverso le corde arriva a te e viceversa”.  
A questo punto mi sorge spontanea la domanda se tra Dom e slave scatta un sentimento d’amore?
“può essere. Niente è escluso. Ma se lui vuole avere più slave deve essere chiaro fin dall’inizio. Anzi, paradossalmente se si pensa che la slave sia appiattita sul master, sbaglia!  Avviene esattamente il contrario: le slave sono spesso donne forti e intelligenti che non si fanno circuire. Scelgono consapevolmente di cedere il controllo. Io ad esempio sono stata definita una Kajira. Ossia come una schiava del pianeta Gor.”
Esiste una serie di romanzi di John Norman ambientati sul pianeta Gor dove le kajira vivono in condizione totalmente subordinata.
Alla mia domanda se tutte le donne amano la sottomissione, Akiko risponde che per alcune è una vera e propria inclinazione naturale. Non è semplicemente cercare l’uomo forte o il Principe azzurro. Qui si tratta di accettare di essere completamente sottomessa.
Immagino che non sia semplice uscire dal nostro ruolo di donne emancipate e vestire i panni di una sub. Infatti mi spiega che in genere il Master addestra le sue schiave. Ad esempio si fa presto a parlare di frusta, ma pare sia uno degli strumenti più tecnici e complessi. Un bravo Dom deve saperla usare per evitare di lasciare segni permanenti.
“Molti si improvvisano flogger ma occorre attenzione e amore verso il corpo sottoposto al flagello. Infatti all’estero ci sono centri di addestramento per chi ha tendenze da Master o Slave per vivere con consapevolezza questo tipo di esperienze”       
Insomma da quello che mi racconta arrivo a comprendere che il BDSM non è violenza perché è consensuale e per chi piace, il dolore è piacere.
Per questo motivo mi spiega che una delle pratiche da lei preferite è essere mollettata. In questa condizione di silenzio si sente appagata: muta e in balia del suo signore, ha come unica forma di espressione gli occhi.
Per me, che mi sono formata guardando i cartoni animati di Lady Oscar e Candy Candy, mi risulta difficile comprendere quando arriva il compiacimento fisico per una slave. Ovvero una slave prova orgasmo? Cioè, parafrasando il romanzo di Peter Cameron, “Un giorno tutto questo dolore le sarà davvero utile”?      
Akiko mi confida che sotto una sessione di corde prova solo orgasmo, piacere puro e prolungato.
Allora perché non provare a educare anche noi vanilla ad essere meno sospettosi verso il BDSM?  Perché non raccontare in modo corretto e senza compiacimenti la realtà di un mondo che, una volta conosciuto, fa decisamente meno paura. Ma soprattutto si eviterebbero tante ipocrisie all’interno della coppia se si imparasse davvero a giocare insieme. Non occorre per forza fare male, basta semplicemente lasciarsi trasportare dai ruoli e improvvisare. Dal semplice ordine “Tu, ora vai in macchina, ti siedi e mi aspetti” a provare il brivido di una sculacciata quando meno te lo aspetti. 
Akiko gioca forte, ovviamente non si tira indietro davanti a pratiche più impegnative come il Wrapping o il Choking, che non sono per tutte. Essere Master o Slave ha un risvolto anche nella vita quotidiana. Infatti, quando smetti panni del tuo personaggio del BDSM, ti senti una persona un po’ speciale nel mondo reale.
#chièunaslavebdsm
#domhistoiredo
#cinquantasfumature
#vanillabdsm
#hikarikeshophoto
#hikarikeshoesteticaedestasi
#spocchisamenteilareilariacerioli
#evulvendoravenna
#laravennatechicilariaceriolicorrierediromagna
#psychiatryonlineilariacerioli
#ilgiornaledelricordoilariacerioli
#wrappingchoking
#margaretkeanequadri
#margaretatwoodilraccontodellancella
#histoiredo



martedì 7 maggio 2019

Evolution: una maternità avvinta. quando lo Shibari si fa arte: la fotografia raffinata di Hikari Kesho



Evolution (photo by Hikari Kesho)

Se l’opera di un artista si misura dall’impatto sul pubblico, allora il lavoro di Hikari Kesho – al secolo Alberto Lisi - ha davvero colpito nel segno. Personalmente, sono stata risucchiata in un vortice di emozioni contrastanti. In particolare mi è parso che tutte le sensazioni, belle e terribili insieme, della maternità riaffiorassero all’improvviso con sgarbata prepotenza. Come terribili? Terribili sì, come racconta Rossella Milone in Cattiva; perché non per tutte le donne la maternità rappresenta un traguardo felice. Al contrario può essere un percorso a ostacoli, specie se l’affrontiamo da sole o non ci sentiamo adeguate al ruolo di madre perfetta che la società impone. Sovversivo è dunque raccontare, senza alcuna ipocrisia, ciò che da secoli viene considerato il fine precipuo dell’esistenza femminile; e lo è soprattutto se, per fare ciò, si adopera il linguaggio dello shibari. La teoria della composizione raggruppa quattro foto, da leggersi partendo dalla panciuta figura femminile distesa a terra, in posizione di ponte, appoggiata sulle mani e con la testa riversa. La lettura canonica, come viene suggerito dal titolo dell’opera (Evolution), prevede di partire proprio da questa prima foto. Poi, una dopo l’altra, si procede fino all’ultima, dove, con le corde allentate e un minore numero di giri attorno al corpo, si ritrae la donna, in piedi, animata da un atteggiamento fiero, con lo sguardo rivolto in direzione dell’orizzonte. Eppure i polsi sono ancora legati dietro la schiena. Cosa c’è di estremamente disturbante nella composizione? Ancor più della cattività femminile, il fatto che questa stessa donna sia incinta. Ho guardato e riguardato queste fotografie, più volte, interrogandomi su quel che differente nell’interpretazione, rispetto all’autore, può dare un occhio femminile. Quel che mi è venuto in mente è soprattutto il desiderio di rilanciare la palla della provocazione, domandandomi e domandandovi se si tratti di una “evoluzione” oppure di una “involuzione”. La stessa domanda, cioè, che mi ha frullato per la testa cercando una qualche lettura interpretativa del lavoro di Hikari. Ho provato allora a mescolare l’ordine della sequenza, per vedere se mutava la lettura complessiva; e sono partita analizzando il singolo elemento, procedendo nel senso dell’individuazione delle differenze tra le varie immagini. Ho deciso alla fine di interpretarne il senso andando a ritroso, partendo dal fotogramma che l’artista considera come l’ultimo della serie. Ne è scaturito un nuovo evento. E questo perché, come sottolinea David Freedberg in The Power of Images, la risposta emotiva ad un’immagine non è frutto del caso, ma si collega a una vera e propria grammatica tipologica universale, che induce spontaneamente una determinata reazione alla presentazione di una codificata serie di immagini. Ora, è innegabile che la visione di una figura femminile nuda, imprigionata in molteplici giri di corda, evochi un pathos dall’antico animo, quasi un archetipo culturale. E, così facendo, finisce per apparirci abituale, dunque non disturbante. Anche la composizione rimanda a qualcosa che ci appartiene: la luce, che s’abbatte sul corpo in primo piano, lasciando in ombra il contesto, ci riporta alla lezione caravaggesca; l’atmosfera barocca della composizione, così simile ad un dipinto seicentesco, di quelli destinati ad adornare una cappella privata, è ugualmente parte del nostro immaginario. Lo scatto diventa quindi iconografia. Tuttavia il senso complessivo, invertendo la sequenza delle fotografie, muta di segno e si allontana dal percorso conosciuto: se la madre, che nella lettura originaria evoca la liberazione dagli impacci per ergersi fiera della propria condizione, nella mia interpretazione, frutto di una ricombinazione delle foto, passa dalla finzione di libertà (non ha forse ancora i polsi legati?) alla drammatica accettazione della propria condizione di prigioniera. Tutto mi ricorda la tesa riflessione di Anne Sexton sul rapporto delle donne con la maternità:

Io che non ero mai stata certa di essere una bambina, 
avevo bisogno di un’altra vita, 
di un’altra immagine che me lo ricordasse.
E questa fu la mia peggior colpa: tu non potevi
curarla o alleviarla
Ti ho fatta per ritrovarmi.

Prendo spunto quindi dalle sue parole per sottolineare la lontananza dell’odierna condizione materna dalla visione romantica, stereotipata e idealizzata, nella quale un po’ tutte siamo state allevate. Se ci ribelliamo all’immagine di una maternità consumistica, fatta di passeggini alla moda e sorrisi stampati, non possiamo infatti che concordare che la maternità è soprattutto sangue, sofferenza e sacrificio. E la donna può resistere a tanto tormento forse proprio perché ci hanno programmato per sublimare tanto dolore. Non si riduce alla semplice endiadi “Evoluzione” o “Liberazione”, perché talvolta è piuttosto una involuzione nell’autoprodotta schiavitù. Tornando alle fotografie di Hikari, credo che sia riuscito a sintetizzare entrambe le letture: quella più facile, che racconta di una donna capace di sottrarsi alle corde anche grazie alla forza datale dalla gravidanza, e quella forse più disturbante, di una donna che, accostatasi con positività alla condizione materna, con tutta l’ingenuità della giovinezza e dell’inesperienza, si ritrova poi stretta dall’opprimente senso di responsabilità, fissata ad un solo e unico ruolo. Almeno fino al momento in cui troverà la forza, con dolore forse prossimo a quello del parto, di riemergere alla vita. Dall’Evuluzione all’Involuzione, quindi, per arrivare alla Rivoluzione.            
               
#rivoluzionefotografiamaternità
#hikarikeshohomenewsevents
#shibarikinakuworkshophikarikesho
#cattivarossellamiloneeinaudi
# caravaggiobarocco
#annesextonpoesie
#neuroesteticachiaracappellettoartedelcervello
#DavidFreedbergfenomenologiadellarte
#percezionedell'immagine
#artevisivateoriadellimmaginedibattitocontemporaneo


giovedì 7 marzo 2019

Lavatrici belle e un po' perverse: quale differenza tra un dildo e una Bosch?



Ammetto di essere rimasta senza parole quando, grazie alla segnalazione di un amico, ho scoperto l’esistenza di un articolo del famoso psichiatra Vittorino Andreoli intitolato La psicologia di una lavatrice. Perché tanto stupore? La ragione sta nel curioso abbinamento tra il benemerito elettrodomestico, capace di migliorare realmente la vita di tante donne (ho ancora nelle orecchie i racconti di mia nonna, che era solita raccontarmi di quando il bucato si faceva usando la cenere e l’olio di gomito, sacrificando la pelle delle mani al Dio dei ghiacci; un po’ come le povere lavandaie descritte da Zola nell’Assomoir), e il processo di costruzione dell’identità di genere femminile. Per farla corta, secondo Andreoli la lavatrice è un potente simbolo di femminilità; anzi, l’insigne psichiatra arriva a paragonare la fisiologia femminile alla forma dell’elettrodomestico. Perché solo persone in malafede potrebbero rifiutare l’evidente simmetria tra il cestello dei panni e l’utero della donna, e allo stesso modo solamente gli ingenui non s’accorgerebbero del rapporto tra l’acqua che deterge e il liquido amniotico rigeneratore di vita. Seguendo il ragionamento anche il portello tondo ha una corrispondenza, perché da qualche parte l’organo maschile – che appare curiosamente associato ai panni sporchi, da mondare dai peccati attraverso l’immersione in uno nuovo – deve pure entrare! Non contento di avere formulato l’ardita metafora, il famoso psichiatra rincara la dose, affermando sicuro che, per tutti i motivi sopra ricordati, le donne non possono rimanere sottilmente e piacevolmente turbate ogni qual volta si ritrovano a tu per tu con una lavatrice. Ammetto d’essere perplessa. Finora non aveva mai pensato alla mia lavanderia come a un luogo di proibiti piaceri. E neppure aveva mai pensato che “fare il bucato” corrispondesse ad un fine e appagante rituale erotico. Quindi l’immaginazione galoppa, al punto da vedermi davanti agli occhi le immagini di un possibile spot pubblicitario dell’Indesit o della Whirpool: non più casalinghe affaticate, alle prese con cesti di panni maleodoranti, ma donne in abbigliamento succinto e pieno di pizzi, impegnate ad accarezzare l’elettrodomestico come se avessero in mano il proprio dildo. Insomma, una di quelle pubblicità che la RAI si guarderebbe bene dal mettere in onda, se non in orario notturno. Poi, ripensando ad Andreoli, mi viene in mente che la prospettiva non sarebbe poi così male; almeno le signore indispettite dallo stato comatoso del consorte, specie alla domenica, in orario partite di calcio, saprebbero come impiegare, in modo divertente ed appagante, il proprio prezioso tempo! Insomma, se così fosse la lavatrice potrebbe davvero divenire il simbolo di una nuova rivoluzione sessuale. Nella realtà dei fatti l’articolo di Andreoli mi pare piuttosto un modesto contributo, che s’inserisce però all’interno di un processo molto più imponente e preoccupante, che vorrebbe convincere le donne della “naturalità” del ricercare appagamento per i propri desideri sempre e solo all’interno della dimensione familiare e domestica. Anche per questo motivo stride il suo appello alle principali industrie del settore, affinché progettino modelli che tengano conto delle esigenze femminili durante l’atto della masturbazione. Se voleva essere una frase ironica manca totalmente il bersaglio, molto meglio sarebbe stato allora appellarsi – e chi s’intende un po’ di bondage ha già capito a cosa mi riferisco – alle case produttrici di mollette per il bucato! Esiste però un modo per farci beffe del progetto reazionario in atto, care amiche; ed è quello di precipitarci in lavanderia – quella del vicino di casa carino, oppure quella a gettoni sotto casa – e, tra un giro di manopola e qualche ciclo con centrifuga, liberare la nostra sensualità al ritmo di You can leave your hat on. Vuoi non mettere poi un prelavaggio? Un preliminare da urlo assicurato.
#vittorinoandreolilavatricebellaeperversa
#laravennatechiccorrierediromagna
#Assomoirlavandaielaravennatechic
#cosaregalareallatuadonnalavatrice



venerdì 8 febbraio 2019

A proposito di Sanremo: le signore della canzone italiana





Ieri sera sono apparse sul palco dell’Ariston due regine della canzone italiana: Patty Pravo e Loredana Bertè. Per quanto mi riguarda, ammetto la mia venerazione per Patty: adoro il suo aristocratico disprezzo verso la massa che ignora l’esistenza di Peggy Guggenheim. E, dopo aver visto il suo outfit, ho deciso: a settant’anni sarò Patty! Vestita di broccato come Eleonora Duse, con i capelli inanellati a deadlocks, le pianelle veneziane artigianali a 350 euro e sorseggerò tè alla menta in una tenda nel deserto dopo aver vissuto ovviamente una vita inimitabile. Non trovate anche voi straordinarie entrambe? Due donne, non più nel fiore degli anni se ne fregano dell’età e si presentano davanti al pubblico orgogliose della loro chirurgia estetica.
Una bella lezione per tutte quelle fanciulle che mettono in mostra le loro grazie su facebook e social in cerca di visibilità, pensando di essere fighe. Ricordate, care bambine, che non basta un culo per dimostrare di esistere. Occorre prima di tutto dimostrare di saper fare qualcosa nella vita. Non vale non un post bislacco e sgrammaticato carico di senso comune sotto ad una foto in perizoma. Mio Dio, quanta debacle di stile negli ultimi tempi mi tocca di vedere. Eppure non sono trascorsi così tanti anni dalla pubblicazione del Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, in cui l’autrice denunciava l’esposizione mediatica del corpo femminile nella televisione e nelle pubblicità. Possibile che ce ne siamo già dimenticate?  Abbiamo talmente tanto abbassato la soglia di guardia che, non solo aneliamo alla vetrina mediatica, ma noi stesse alimentiamo i commenti maschilisti verso le due donne sul palco dell'Ariston. Nessuno scudo di difesa da parte delle donne verso altre donne. Nessuna pietà!
Possibile che la vecchiaia faccia così paura? Eppure viviamo in un paese dove la stragrande maggioranza della popolazione ha un’età avanzata. Abbiamo un crollo demografico pauroso e i giovani sono tutti emigrati all’estero. Quindi di cosa vogliamo parlare? Sembra quasi che essere anziano sia una condanna. Eppure su Youporn i video con over 50 sono quelli che vanno per la maggiore dopo quelli amatoriali (dove comunque non mi sembra di vedere dei Kouroi o delle Veneri di Botticelli impegnati in coiti). Quindi di cosa vogliamo parlare? Siamo un paese di adulti e di persone agè, fisicamente normali, spesso in sovrappeso, poco attraenti e con qualche problema di autostima, ma a tutti piace fare sesso anche dopo i 50, godere della vita e dedicarsi ai piaceri quotidiani.Pertanto ben vengano delle care e vecchie icone come Patty, Loredana o Ornella Vanoni, che, con il loro esempio, smitizzano l’idea della dolce nonnina delle fiabe. 
sanremo2019 #loredanabertè
#pattypravononsonounabambola #loredanabertènonsonounasignora
#laravennatechicpattypravoicona

lunedì 4 febbraio 2019

Dio li fa e poi li scoppia: abbecedario della singletudine





Single per necessità o single per scelta? E se si torna single dopo anni di convivenza? Quanti di noi scelgono realmente di restare soli? Quanti single, invece, vivono una vita di coppia?

In effetti vedo più situazioni di questo tipo: persone apparentemente felici all’interno di un matrimonio, ma che non provano più nulla l’uno per l’altra, se non indifferenza o, quando non ci si fa guerra, una parvenza di amicizia. Spesso, rassegnati all’infelicità, uomini e donne dichiarano di martirizzarsi nella relazione per il bene dei figli o per salvaguardare le apparenze. Certo non è facile rompere le abitudini e trovarsi improvvisamente soli a gestire una nuova casa, le pratiche di separazione, spese impreviste e una diversa gestione del tempo. Molto meglio, allora, perseverare nell’infelicità, crogiolandosi nell’inettitudine. Tanto esistono i social a darci un brivido di trasgressione: quante storie virtuali iniziamo e chiudiamo compulsivamente per non morire di noia mentre il partner dorme nell’altra stanza.  

Chi, invece, è tornato single dopo una separazione, spesso cerca di riempire il vuoto nel letto con incontri effimeri e senza futuro. Non che sia un errore, per carità, concedersi momenti di pura evasione erotica.  Ma se ognuno di noi ha diritto di gestire la propria vita sentimentale come crede, talvolta il rischio di finire in overbooking da prestazione è abbastanza alto.

Altri, pur di non restare soli, si appoggiano alla prima stampella che incontrano. In fondo tutti siamo stati educati fin da piccoli a sentirci veramente realizzati solo in coppia. E se l’amore non è esattamente quello che ci fa tremare le vene e i polsi, pazienza! Chi si accontenta gode e ci raccontiamo felici in una nuova relazione quando poi, di nascosto, versiamo lacrime nel ricordare quella appena chiusa. Insomma l’amore è proprio un gran casino: donne che amano troppo e male; uomini con la paura di impegnarsi; persone che si lasciano vandalizzare pur di non sentirsi sole. Perché non è tanto la solitudine a destare angoscia, quanto il senso di isolamento dal contesto quotidiano: se non siamo realizzati in un vincolo il senso comune ci dice che non esistiamo. Siamo meteore fluttuanti nell’universo; non ci meritiamo la felicità.  

Essere single dopo i quaranta non è una passeggiata e come cantava Massimo Ranieri “perdere l’amore quando si fa sera, quando tra i capelli un filo bianco li colora” può lasciare  un profondo senso di vuoto e di fallimento.

Da una parte, infatti, si deve fare i conti con ricordi e recriminazioni, dall’altra con i sensi di colpa per non avere preservato il nido. Infatti, in una società, dove ancora il solo rapporto ammesso è quello monogamico (e dove una donna viene additata se vive liberamente la sua sessualità), ovviamente non può esserci spazio per chi decida di sperimentare altri tipi di relazioni o più semplicemente desideri prendersi cura di sé.

Occorre pertanto coraggio e ironia nel controbattere alle battute feroci del tipo “ancora sola alla tua età?” a cui segue immancabilmente un “beata te chissà quanto ti diverti…” ovviamente i puntini di sospensione alludono ad un divertimento inteso come “libera erogazione di prestazioni sessuali”.

Se poi siamo single con figli, non ne parliamo! Il giudizio morale si scatena: i bambini sono poveri orfani abbandonati da genitori disgraziati.

Concludendo, allora l’amore esiste? Possibile che tutte le nostre relazioni siano destinate al macero? Sì, se ci ostiniamo ad inseguire l’Amore (con la A maiuscola), quello a cui siamo abituati nei film, nelle canzoni o nei romanzi, all’insegna della devozione e del sacrificio.

Questo non può che riservare frustrazione e aspettative disilluse. Se amare significa rinunciare a se stessi, mettersi al secondo posto o soffrire, forse scegliere una vita in vacanza non è così sbagliato.

Esiste una ricetta per la felicità? L’unica risposta possibile è quella di andare realmente incontro all’altro, senza diffidenza, imbarazzo o troppe aspettative. Perché un rapporto possa iniziare sotto i migliori auspici occorre vivere la persona e non la situazione, l’apparenza o un’illusoria trama Harmony.      
Ps: Evulvendo 2019 sta per ricominciare. con Donatella Tarozzi e Francesca Viola Mazzoni vi aspetto il 13 febbraio al Tribeca caffè, via Trieste 20 Ravenna, dalle 20.30 (vi consigliamo la prenotazione al numero 0544 422516)
Nella prima serata affronteremo il tema come essere single e felici, ma anche come riconoscere e superare ciò che ci impedisce di trovare l' amore.
vi aspetto numerose e numerosi.      
#Evulvendo2019 #calzinispaiatibellissimi #singlesinasce #amorelibero #relazioninonmonogamiche #overbookingsentimenti #tribecaravenna        

             

lunedì 28 gennaio 2019

Gli asciugoni, ovvero i “Rotoloni Regina assorbi pazienza”



Mia nonna diceva sempre che il tempo è scarso, ed è peccato sprecarlo dietro a cose poco importanti. Me lo ripeteva ogni volta che indovinava la presenza di una lacrima nel mio cuore. Troppo cinismo? Chissà, di sicuro non aveva molta fiducia negli uomini: lei, nata da un coito casuale, con un padre molto più simile a uno stronzo che ad un padre, allevata da una madre coraggiosa quanto tremendamente sola, aveva del resto una spessa esperienza del mondo. Si può dunque affermare che avesse ragione, non foss’altro per la ricca conoscenza del genere umano. Non che li disprezzasse, gli uomini; tutt’altro. Solo che ne riconosceva la fragilità e l’insicurezza; ne scorgeva l’infelicità quali mariti insoddisfatti e senza più fuoco. Anche per questo aveva sempre una parola gentile per tutti, non sottraendosi mai al compito di ascoltare con pazienza un lamento. Esisteva però un limite: se si accorgeva che qualcuno s’approfittava della sua disponibilità, impiegava meno di un secondo per metterlo alla porta. Mi sono spesso domandata come avrebbe reagito vendendo la mole di traffico social a cui ciascuna di noi risponde? Forse avrebbe riso della classificazione che ora vi propongo, rigorosamente basata su oggettivi criteri tassonomici. Al primo posto? Sul gradino più alto s’ergono gli asciugoni depressi; ovvero quelli che, non avendo evidentemente le risorse per pagarsi uno straccio di psicologo, scelgono per l’appunto il lettino di casa tua  per sdraiarsi a scrocco. Al posto d’onore seguono gli asciugoni sex addict, cioè coloro che indefessi ci provano con tutte. Basta che respirino. Medaglia di bronzo: gli asciugoni “vorrei ma non posso”, ovvero tutti quelli che, pur desiderando una donna, sono evidentemente terrorizzati dalla gestione delle possibili relazioni. Giù dal podio? A poca distanza, ben posizionati per scalare la classifica, ecco che si avanzano gli asciugoni intellettuali. Chi sono? Tutti coloro che paiono interessati solo a dimostrarti l’ampiezza enciclopediche delle loro conoscenze… ovviamente fino al momento in cui arriva, preciso e puntuale con una bolletta del gas, una richiesta di appuntamento. Cara nonna mia, che pazienza che ci vuole…      

NB. Per una fenomenologia dell’asciugone
Dicasi asciugoni quegli uomini che scrivono noiosi dragoni assorbi pazienza. Cos’è un dragone? Ovvio, un lungo soliloquio maschile che ha come unica finalità quella di arrivare a domandarti un appuntamento (a cui tu, ovviamente, rinunci). Quindi, cari ometti, se mi riempite la bacheca di inopportuni messaggi, in cui sciorinate la vostra tenebrosa vita, non siete più interessanti. Siete solo più noiosi. Morfologicamente l’asciugone ha una certa età, e di solito pensa che scrivendo una lettera tradizionale, sul modello di Jacopo Ortis, sia garantita la conquista della gentil donzella (non funziona così carissimo, il mio tempo è prezioso e ho ben altro a cui pensare che non alla distinzione tra apollineo e dionisiaco). Quindi, se volete conquistare una donna, cari asciugoni, vi prego: evitate di raccontarvi come rocker maledetto o il novello Baudelaire, siate voi stessi e soprattutto imparate l’arte del riassunto.   


mercoledì 9 gennaio 2019

Quando l’ipocrisia e il perbenismo imperano creano mostri: due parole sul caso MOIX


(photo by Leonarda Vanicelli)

In questi giorni leggo sui social diversi e impietosi interventi alle dichiarazioni rilasciate da Yann Moix, autore francese poco noto al pubblico italiano. Non voglio entrare nel merito delle sue opere, che francamente non ho ancora avuto il piacere di leggere, ma a mio avviso sembra quasi voler rincorrere, con le sue scomode esternazioni, un altro francese: Michel Houellebecq. Quest’ultimo, scrittore scomodo e irriverente, non ha mai nascosto una certa misoginia (basta leggere L’opportunità di un’isola Bompiani 2015 o Sottomissione Bompiani 2015) e le sue preferenze dal punto di vista affettivo.

Pertanto, siamo così sicure di avere bisogno di un altro “cattivone” come Yann Moix? Per quanto mi riguarda, la questione è di scarso interesse, ma mi sono messa sull’attenti quando ho letto queste parole di Moix: “le 50 enni per me sono donne invisibili. Vado solo con 25 enni orientali”. Quello che mi disturba, infatti, non è tanto l’esclusione dal suo letto di noi donne mature (ognuno fa l’amore come e con chi gli pare), ma mi turba l’evidente intenzionalità nel rimarcare la provenienza geografica delle donne predilette. Il motivo? Ovvio: l’Oriente immediatamente desta nell’immaginario maschile l’idea della geisha o peggio, ancora, della donna molto giovane e sottomessa. E in una società, come quella occidentale, che organizza gite in parti del mondo dove uomini della sua età comprano ragazzine (se non bambine), le sue parole fanno davvero male.

Se Moix ha espresso un giudizio così tranchant, è anche vero che ho trovato i commenti del popolo social molto ipocriti. Gli uomini, infatti, sostengono che “assolutamente preferiscono le donne over 40” (triste tentativo di captatio benevolentiae verso l’universo femminile?); molte donne, invece indignate contro Moix, rivendicano la loro femminilità sottolineando altrimenti che “mai e poi mai finirebbero con un uomo più giovane”.

Eppure di donne più anziane rispetto i loro spasimanti è piena la letteratura: dalla coraggiosa Duchessa Sanseverina della Certosa di Parma di Stendhal alla Foscarina nel romanzo Il Fuoco di D’Annunzio. Possibile che noi donne dobbiamo ancora giustificarci davanti al tema dell’età in amore? Anche quando si parla di adulti consenzienti e consapevoli?      

E se mi sembra ovvio che un uomo al culmine dei suoi anni preferisca una giovane ad una quasi nonna (comunque il sito Porn Hub ha una categoria dove signore anziane sono molto impegnate in sessantanove con uomini nel fiore degli anni), è anche vero che esistono donne mature molto affascinanti, capaci di ammaliare e conquistare un uomo con grazia e intelligenza.

Il problema è che queste ultime non sono la maggioranza. Conosco più signore insoddisfatte e represse nella loro sessualità di quelle con una vita affettiva appagante; ci sono più signore di mezza età con i disturbi della menopausa che non virago.

La realtà, care amiche e amici è questa e dovremmo farcene una ragione: la mia vicina di casa! Una simpatica signora di 54 anni, separata con due figli adolescenti. Un lavoro che inizia a pesarle, un ex marito che sta con la badante dell’anziana madre. Lei, la mia vicina? Non ha tempo proprio tempo di cercarsi un uomo o rifarsi la tinta perché ogni santo giorno deve fare i conti per la spesa in quanto l’ex marito fatica a passarle gli alimenti.

No, non tutte siamo Monica Bellucci! E qualcuna di noi, arrivata alle soglie della menopausa, si è vista sostituire senza troppi problemi da una più giovane.     

Comunque bella forza caro Moix: evidentemente è più semplice scopare la venticinquenne zitta e muta, ma che finge l’orgasmo per compiacerti, piuttosto che confrontarti con la vita vera.

#MoixFrancia
#menopausafelice
#MonicaBellucci
##Michel Houellebecq


venerdì 4 gennaio 2019

Un angolo di classe a Ravenna. Quando l’eleganza si accompagna al Bon ton



Mia nonna era solita raccontarmi delle signore altolocate dei favolosi anni del boom economico, abituate a trattenersi per ore con lei sui divanetti della sua piccola ed elegante boutique. Lì chiacchieravano e sorridevano, discutevano e valutavano; e alla fine se ne andavano tenendo sotto braccio un qualche accessorio di classe, spesso una splendida borsa in coccodrillo o pitone. Quasi mai pagavano loro, perché era abitudine lasciare il conto al portafoglio del marito. L’uomo sarebbe passato appena possibile, aprendo il suo generoso portafogli per regolare il sospeso. E qui spesso si poteva assistere alla sorpresa: non era infatti infrequente che il munifico uomo se ne uscisse dal negozio con un’altra borsa, replica perfetta – anche nel prezzo – dell’oggetto acquistato dall’ufficiale consorte. Perché l’etichetta contava, anche nell’ordinaria gestione dei normali rapporti d’infedeltà coniugale (non si poteva certo rischiare la scenata di un’amante delusa dopo avere comparato, magari durante la messa di mezzanotte, i regali di natale!). Mia nonna, che gestiva la sua attività quasi fosse un salotto della mondanità parmense, sapeva tutto di tutti, raccogliendo con naturalezza le confidenze delle persone rimaste sole durante le festività (il privilegio di una borsetta di coccodrillo, da sfoggiare durante la stagione teatrale, aveva infatti per contrappasso la pena dell’attesa quando la famiglia del fedifrago soggiornava a Cortina per le vacanze). Purtroppo quel modello di boutique, luogo di passaggio obbligato per decine e decine di donne acute, è ormai divenuto una rarità; oggi veniamo letteralmente travolti dalla tristezza delle tante grigie catene commerciali. Tuttavia si possono trovare anche alcune gradite sorprese. Come quella rappresentata, in via Matteotti 11, dalla
ravennate Moda di Manu. Il negozio di Emanuela Carminati conserva infatti lo spirito raffinato della boutique, offrendo alle clienti ben più di uno spazio espositivo e commerciale; Moda di Manu si distingue poi per le collezioni originali, sempre eleganti, come per la varietà di soluzioni che Emanuela sa offrire alle clienti: abiti adatti a tutte le donne, di ogni età e di ogni taglia. Prevale lo stile italiano, a partire dal marchio Le Streghe (un brand che, sebbene davvero elegante, può tranquillamente essere indossato anche: da chi adotta uno stile di vita dinamico e contemporaneo); per non parlare del marchio Il vento e la seta, griffe che risuona nelle orecchie come il titolo di un romanzo, che dal 1964 stupisce gli intenditori per la grande qualità dei tessuti e la perfezione del taglio. Il mio preferito è tuttavia Eco, una casa davvero attenta alla necessità di coniugare qualità e ricerca stilistica, in grado come pochi altri di proporre armonia nelle forme, coerenza nella linea ed equilibrio nei colori.
Che dire poi dell’entusiasmo trasmesso da Emanuela? Anche per questo sono stata felice di organizzare quattro serate nel suo negozio; e sono anche lieta di invitarvi alla prossima, dal titolo Come essere una parigina a Ravenna: guida ad un abbigliamento Cheap and Chic. Ci saranno consigli sull’arte di acquistare ne periodo dei saldi, sui capi da tenere assolutamente nell’armadio e sugli indumenti da eliminare in vista della prossima stagione; sempre in collaborazione con Donatella Tarozzi, counselor esperta in rapporti di coppia e mediatrice familiare. Saremo in tante, tutte amiche e tutte decise a chiacchierare di moda, di stile e di femminilità. Preparatevi, perché la classe è un diritto… e noi vi condurremo alla sua conquista!  Vi aspettiamo il 16 gennaio 2019, dalle ore 18.30 (anche se arrivate in ritardo siete ben accette) in via Matteotti 11 vicino a Piazza del Popolo (Ravenna).