Consigli per una vita di coppia felice e per una singlitudine serena, senza troppi sensi di colpa.

martedì 26 dicembre 2017

Racconto di Natale

La mia scusa è stata il salone dell’editoria a Roma, un appuntamento che tengo segnato in rosso nell’agenda; ma l’obiettivo vero, quello che si è soliti nascondere in rubrica usando un nome di fantasia, era in realtà un piccolo negozietto del centro, a pochi passi dalla pura bellezza del marmo fattosi carne. Qui, tra le case strette di un vicolo pieno di edera e rampicanti, si cela infatti l’antro di Circe (un posto meraviglioso dove si approda inconsapevoli e ci si trasforma). Me ne avevano parlato alcune amiche, con un sussurro all’orecchio che lascia intendere assai più di quello che le parole possono dire: “mi raccomando, fai un salto dalle parti di piazza Navona e fatti un giro da Zou Zou”. 
Ed io, da ragazzaccia curiosa quale sono, proprio così ho fatto. 
Dal momento che quel segno rosso era da rispettare, ho comunque trascorso un bel pomeriggio all'EUR (a discutere di lettere, passeggiando per gli stand e salutando amici). Fino al calare della sera, quando, come Cenerentola in fuga dal ballo, ho abbandonato tutti per chiamare un taxi e rivolgere la seguente al conducente preghiera: "via della Dogana vecchia, per favore”.
Avete presente i racconti delle favole? Quelli che si aprono descrivendo una porticina scarsamente illuminata, immersa nel buio della notte? 
Ecco, così mi è apparsa l’entrata di Zou Zou, la prima bottega italiana dedicata all’erotismo femminile (https://www.zouzoustore.com/shop/it/)
E come Alice, stupita di fronte alla tana del coniglio, ho esitato un attimo; ma si è trattato di un semplice istante, perché un secondo dopo ero già stata rapita dal mondo fantastico che avevo appena scovato. 
Carta da parati arabescata rosso carminio e quadri alle pareti con peccaminosa lingerie nera, lampade da tavolo dal paralume in bianco merletto ed ampi lampadari di cristallo: questo è il colpo d’occhio. E subito vieni avvolta dal profumo, intenso e speziato, delle candele accese. Una voce suadente ti attira infine dentro, e non fai in tempo ad opporre la barbosa razionalità che è propria del Super Io, che Tiziana - la proprietaria - ti ha già squadernato davanti agli occhi un catalogo di delizie: culottes in seta e in tulle, corpetti trattenuti da lacci e nastri, biancheria deliziosa che pare implorare la punizione di una mano decisa, corsetti ed imbragature, cavigliere e collari in pelle, corde colorate. Puoi anche praticare una sessualità ordinaria e discreta, ma non puoi non cadere vittima del fascino di questi oggetti; talmente belli e provocanti che non si può non immaginare il modo e il momento in cui potresti farne sfoggio. Naturalmente non mi sono tirata indietro, acquistando un paio di polsini e un collare in materiale ecocompatibile (perché l’impegno sociale pretende la sua parte, ovvio). Andando col pensiero ai sensuali reggicalze in mostra, le mie dita digitano in questo momento la storia natalizia che ho deciso di regalarvi oggi. Consideratela un mio speciale regalo di Santo Stefano, perché non è necessario affrontare il freddo della strada per smaltire le calorie prese nel giorno del Santo Natale: esistono infatti altri modi, molto più creativi e divertenti; fidatevi della vostra amica spocchiosa…

La coppia entrò rapida nel negozio.
Lui era elegante e severo, forse sulla quarantina (ma poteva pure aver brillantemente superato la cinquantina). Che fosse un politico? In fondo i luoghi del potere erano lì, a pochi passi da quel discreto locale. No, l’aura di compostezza che da lui promanava lo associava piuttosto alla carriera del magistrato. Abituato a sentenziare, a vedere pendere dalla sua bocca il destino di uomini e donne. La sensazione di disagio in chi lo guardava si acuiva quando s'incrociavano i suoi occhi, che erano gelidi e sfuggenti come il soffio della tramontana.
La compagna, più giovane, si guardava attorno un poco smarrita; teneva per lo più lo sguardo basso e non s’intrometteva nella liturgia dei saluti (evidentemente conosceva, e rispettava, il posto ed il ruolo che le era stato assegnato). La sua figura era snella, appena imbrigliata dal lungo cappotto di cammello color nocciola; nessun suo movimento era sgraziato o fuori posto, e nulla pareva sfuggire al controllo di una compostezza algida e totale (che pareva essere stata disegnata a tavolino per lei da mano attenta e che non ammetteva repliche). Tutto di lei raccontava del suo essere una schiava, proprietà di un uomo che non nasconde il piacere connesso col possesso. Forse che quella visita da Zou Zou rappresentava un premio? Un regalo graziosamente concesso da padrone ad una serva che aveva svolto con cura e attenzione un qualche servizio?
L’uomo domandò che gli fossero mostrati i collari, quelli in pelle nera alti qualche centimetro, da abbinare ad un paio di cavigliere unite da una catenella argentea; poi, dopo aver per un po’ valutato l’offerta, si rivolse alla ragazza e con voce ferma e le ordinò di scoprirsi il petto.
Senza alcuna esitazione la giovane eseguì, sfilandosi la maglia di cachemire nero a collo alto che portava sul seno nudo. 
E rimase così, in attesa di nuovi ordini, per lunghi ed interminabili minuti. 
Nel frattempo l’uomo discuteva di frustini, prendendone alcuni nelle mani; li lisciava con le dita e li provava colpendo l’aria con fare soddisfatto. 
Ad ogni schiocco lei sussultava lievemente, col respiro che si faceva sempre più corto; dal sussultare del seno si poteva capire l’impazienza malamente trattenuta che la pervadeva. 
Le persone nel frattempo entravano ed uscivano, domandavano qualche cosa e guardavano un po’ perplessi lo strano quadro. 
L’uomo invece sorrideva, godendo dell’imbarazzo e dell’impazienza sempre più manifesta della sua donna.
Nelle mani teneva ora un frustino di pelle nera, con manico rosso tempestato di Swaroski. 
Lo provò sul palmo della mano, poi si girò e, con un colpo secco, duro, violento, lo fece ricadere sulla candida pelle del seno di lei. I suoi occhi si dilatarono, incerti tra le lacrime e la luce selvaggia del piacere; emise solamente un gemito, niente di più. A quel punto s’inginocchiò e alzò il delicato mento in direzione del suo padrone, come per supplicare d’essere ancora una volta punita. Lui rispose alla richiesta supplice, e colpì ancora; con colpi sordi e feroci, che rigavano di rosse striature la sua pelle candida. 
Chissà quante altre volte si era sottoposta a quella tortura. 
Se fosse per ottenere l’amore di quell’uomo crudele o per soddisfare il desiderio che ardeva dentro di lei non si sarebbe potuto dire… 
Ma forse quella distinzione neppure in realtà esisteva.

#zouzou #roma #viadelladoganavecchia #erotismofemminile #frustino #spocchiosamente #natale #raccontodinatale #bondage   

lunedì 25 dicembre 2017

Marika per sempre

Ciò che in assoluto preferisco, forse ancor più di un atteso appuntamento galante, è una bella serata passata a chiacchierare con le amiche; e se quest’ultime indossano un 44 di piede, allora è davvero alto il rischio di rientrare a casa totalmente ebbra di felicità. Devo quindi ringraziare la benevola “soffiata” che mi ha portato ad Argenta, alla scoperta del sexy shop Paprika.


Fermi tutti; non iniziate a darvi di gomito, scambiandovi battute da caserma!

Quel che sto per raccontare è infatti qualcosa di magico e unico, perché proprio al Paprika di tanto in tanto avviene una specie di miracolo; e persone nate uomini, guidate dall’abile regia di Marta, la proprietaria del locale, possono liberalmente mutare nell’essere magnifico che hanno sempre desiderato. Assaporano quindi il piacere di sedersi allo specchio, sperimentando parrucche e giocando coi lacci di preziosi corsetti. Non c’è in fondo bisogno di granché: appena una manciata di ore, quella necessaria a gustare una cena rallegrata da facezie e allegri racconti, senza temere lo scoccare della mezzanotte ed il conseguente trasformarsi della carrozza in zucca (perché l’unico rischio che si corre è il perdere la propria identità… o ritrovarla, a seconda dei punti di vista).
Nella mia puntata in terra ferrarese, proprio al confine tra acqua e nebbia, ho quindi conosciuto nuove amiche; tutte sincere, con la voglia matta di raccontarsi. Certo le ragazze erano un po’ confuse, perché non capita spesso di ritrovarsi a confessare e a confessarsi il motivo per cui si ama tanto l’eyeliner (specie se all’anagrafe ti chiami Giuseppe). Nessuna di loro si è però poi risparmiata. Da parte mia ammetto di avere fatto all’inizio un po’ di fatica a concentrarmi (penso perché rimasta per un po’ intontita dall’eleganza di queste signore, dal loro look inappuntabile e dalla scarpa perfettamente abbinata al cappottino rosso). Poi ho finalmente cominciato a comprendere…
E quindi, mea culpa, mea massima culpa…
Ho infatti capito che non c’è nulla di più sbagliato che far coincidere il travestitismo con l’immortale immagine offerta da Michel Serrault nel film Il vizietto, dal momento che l’indossare gli abiti normalmente riservati all’altro genere non è un’azione che si compie coll’intensione di stupire. Al contrario, ciò avviene perché si desidera vivere uno spicchio di quotidianità; insomma, non c’è alcuna voglia di stupire, o di épater les bourgeois, quanto l’emergere di un formidabile desiderio di normalità (e quella offerta da Paprika è un pezzetto di quotidianità, importante tanto quanto quella che le attende quando, una volta usciti dal locale, riprenderanno l’abituale grisaglia).
Ergo, è normale indossare il boa di struzzo così come lo è stringere bene il nodo della cravatta regimental.
Lo è ad esempio per Marika Stella, che mi racconta di essere “nata” proprio nel 2009; quando si è spogliata degli abiti da manager, e con passo da mannequin ha deciso di sfidare i suoi propri pregiudizi. Per lei essere en travesti rappresenta una straordinaria emozione, che s’assapora fin dal passeggio: una gioia difficile da descrivere, che riguarda la libertà d’esprimere serenamente la parte di te che il mondo obbliga a tenere nascosta. Allora ci si rende finalmente conto di come molti problemi non siano altro che riflessi di nubi, perché la gente in realtà non ha proprio il tempo di mettersi a guardare la tua figura snella che tacchetta felice le strade del centro cittadino.
Mi ritrovo a pensare alle scelte che potrebbero compiere Marika, Mascia, Stella e Mia se fossero ora delle ventenni; così come mi domando quale cammino, se solo avessero avuto uno strumento paragonabile all’odierna rete, avrebbero potuto intraprendere vent’anni fa. Forse qualcuna di loro avrebbe dimostrato maggiore coraggio, e sarebbe uscita allo scoperto; forse qualcun’altra avrebbe cercato di conciliare le due differenti identità (cos’è in fondo il vivere non è altro che la danza di Shiva, alla ricerca dell’armonia nel cosmo?).
Mi ritrovo anche a pensare alle compagne delle mie ragazze en travesti, alla fatica del vivere nella condizione di incertezza che questa duplicità impone anche agli altri; e mi chiedo pure se ne siano a conoscenza, se riconoscano queste complicate esigenze o quali patti col diavolo abbiano fatto per accettarlo. Di sicuro molte di loro lo ignorano (me lo ha confermato la “mia” ragazza Marika Stella); tante invece preferiscono non fare domande (e se trovano lo scontrino del negozio di lingerie, il più delle volte sperano che si tratti del regalo fatto all’amante).
Ed io, al loro posto cosa farei?
Preferirei fingere di non sapere o presterei lo smalto rosso carminio a mio marito?
Poi comprendo che si tratta di una domanda per me complessa, come dimostra l’attrazione che su di me esercita una di queste ragazze en travesti. Bellissima, con occhi luminosissimi e lunghe ciglia, ho trovato del tutto naturale corteggiarla, sussurrandole pure all’orecchio che mi piaceva moltissimo: come donna, e come uomo. Mi conosco, e so bene cosa significa il mio accavallare le gambe, lo sgranare gli occhioni ed il giocare con una ciocca di capelli… In fondo, la sessualità è sempre una terra incognita, con mappe sempre da ridisegnare e confini continuamente da tracciare.
A cuccia! Tranquilli, non è accaduto nulla.
Sarebbe stato un tantino confuso per una mente semplice come la mia: con chi avrei fatto all’amore? Con una lei o con un lui? O con entrambi?
Oddio che triangolo sghembo, privo di una solida ipotenusa a cui aggrapparsi.

No, no… non sono mai stata troppo brava in geometria.               


ps. carissime amiche, dal mese di gennaio Spocchiosamente ilare si arrichirà, ospitando periodicamente un contributo moooolto ben informato di Donatella Tarozzi, counseling e consulente sessuale
https://www.facebook.com/studiocounselingdonatellatarozzi/
Chi volesse suggerirmi temi, o raccontarmi qualcosa di sé, può farlo scrivendo a:
https://www.facebook.com/SpocchiosamenteIlare/?fref=ts 

#travestitismo #44discarpe #uominitravestiti #trav #entravesti #paprika

per approfondire l'argomento andate anche a vedere il mio precedente post del 10 settembre (Questa sera a casa di Luca)

martedì 12 dicembre 2017

Il surrealismo di Francesca Viola Mazzoni

Lei non poteva distrarsi un attimo
Che subito si scordava di se stessa (da Rogo sublime)

Versi in bilico tra Sogno di una notte di mezza estate, per l’estrema e sognante leggerezza, e, per l’indubbio e crudo realismo, la scena iniziale di Salvate il soldato Ryan. Versi che sono il frutto di un’indomita personalità. Perché Francesca Mazzoni è così: o la sia ama follemente, oppure la si detesta; e non c’è spazio per l’indecisione, per quel limbo in cui cadono troppo spesso i rapporti umani inquinati dalle convenzioni e il savoir faire.
Nulla qui è scontato. Né l’ambientazione, tra il fiabesco e l’onirico, né le metafore, forti, tutte giocate sul registro del contrasto insistito.  
Un lessico marcato, espressionistico e ricco di citazioni colte, date in moglie ad una lingua viva, intessuta di riferimenti alla quotidiana colloquialità, racconta così la formazione di una giovane donna. E se fosse un romanzo? Ovvio sarebbe un bildungsroman, al femminile; oppure un racconto di viaggio, che descrive la non facile passeggiata di una donna alla ricerca di quel che è veramente. Sempre in attesa che il concentrato di energia pura deflagri, investendo chi le sta accanto; ed indecisa se rivendicare il “diritto di volare via o supplicare chi di dovere di farla restare”.
Se lei del resto si definisce un ossimoro, per me si tratta invece di una anastrofe; un’inversione vera di tendenza: uno sconvolgimento delle regole che, nonostante le apparenze, non è semplice anarchia, quanto ricerca di nuove norme.
Per molti aspetti lo stile di Francesca ricorda quello delle poetesse del Surrealismo, cioè di quell’indecoroso e coraggioso spezzare gli schemi, fregandosene delle regole imposte da una bacucca retorica che sa di stantio. I versi di Francesca sono spezzati e concitati, ansiosi come se volessero saltar fuori dal foglio. E le parole prendono vita, come rocce che franano sugli ascoltatori-lettori. Come una cascata, come una colata di lava gelida.
Molti sono pure i punti di contato tra Francesca e Leonor Carringhton, la celeberrima compagna di Max Ernst. Entrambe infatti non si limitano a mettere su carta parole poetiche, ma costruiscono veri e propri racconti. Non una narrazione, ampia, ariosa e fluente, bensì una trasposizione in versi della storia del proprio inconscio: nei loro scritti si trovano i sogni. Non si trova l’Io, bensì tutta l’incandescenza dell’ES.
Nel lavoro di Francesca non si parla di una donna, ma di creature magiche: una fata sdentata e una funambola filosofa. Di creature fatte “della stessa sostanza dei sogni”, di animali e di insetti inconsueti, e di fiori d’altri tempi. Belle e profumate camelie.
Come per Leonora Carringhton anche per Francesca l’atmosfera entro cui si muovono le donne bambine-vecchie è quella onirica, rarefatta perché immersa in un paesaggio deforme, dai contorni fatti di perdono, “slabrati” come cicatrici mai risolte. Così, infatti nella Cinciallegra sul rogo non nasconde una nota simbolista con l’accostamento di realtà e immagini totalmente distanti

 
Prossima volta sii delicata
sii fiera e sfacciata
spacciati cagna orgogliosa del morso
fingiti cicala mai zittita dal tuono.
So che
hai il vizio di pensarmi
sbracata e ferita.
tu dipingimi sempre
in nero di schianto.  



A prima vista si tratta di un mondo regolato dalla legge ferrea del caos, in realtà in questo caleidoscopio di colori e immagini ci si rende presto conto presto che la fune sospesa in aria percorso dal piede della piccola funambola altro non è che il trait-d’union tra razionalità ed emozioni. A ben guardare, altro non è che la lucida follia di chi ha rinunciato ad opporsi alla vita ed ha scelto di percorrere il sentiero del bosco lastricato di mattoni gialli piuttosto che sfidare l’ignoto.
Insomma l’io lirico che emerge dalle opere di Francesca è ribelle e vivace, sempre in attesa curiosa dei futuri cambiamenti; contemporaneamente è però anche un io ferito, fragile tanto quanto è seduttore ed egocentrico, indifeso e bisognoso di essere amato.
Così, trepidante, vuole proseguire il viaggio, e ci chiede lasciarlo andare come in Rogo sublime (dove i versi sono dedicati alle amiche, quasi montaliani angeli salvifici)
Mi arrogo il diritto di volar via.
Chiedo il permesso di rinunciare all’appoggio.
Pretendo un bivio una rete un’uscita di sicurezza.
Supplico chi di dovere di farmi restare.
Altri temi evidenti sono quelli dell’amore e della sessualità. Ma trattati con la sensibilità propria di un occhio e di un cuore femminile. 
Una quarta di erotismo, schiaffato in viso senza chiedere permesso, con parole crude, e tuttavia senza mai scadere nella volgarità.
Per certe immagini pare ricordare alcune quartine di Patrizia Valduga, come in i tuoi polsi

I tuoi polsi mannaia e inno celeste
I tuoi polsi benedizione e scudiscio
Mettimeli addosso
Ora che sono così sola
Che chiamo per nome il silenzio

Per entrambe l’amore è un legame stretto, tra osceno e sacro, un atto di forza in cui ci si deve perdere se si vuole davvero avvertire la presenza dell’altro (oltre che di se stesse; Patrizia Valduga dice “fa’ presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al tuo letto” (cento quartine).
Se i filtri sono banditi e la censura “censurata”, allora l’amore è esibito. Anche nella sua fisicità “in carezze distratte e abbracci mozzicati”. Spesso è un amore doloroso, di quelli che fanno guerra al cuore. Così quando Francesca indossa scarpe color pervinca

Quando ci rincontreremo,
chiamami forte.
Sarò fonte sarò tregua e resa.
Sarò nelle pieghe del muro su cui si arrampica il rovo,
tra le mani che reggono la camelia fiorita fuori stagione.
Sarò tra gli interstizi minuscoli sotto le unghie tagliate di fresco.
(Quando sentì il suo nome urlato da dietro, pensò di voltarsi ma non era vecchia da poco e per niente.Affrettò il passo dentro le scarpine di camoscio usurato coi bordi pervinca..), noi non possiamo non ripensare a Scarpette rosse di Anne Sexton
Abito nel cerchio
della città morta
e mi allaccio le scarpe rosse.
Tutto ciò che era calmo
è mio, l’orologio con la formica,
le dita dei piedi, allineate come cani,
il fornello, molto prima che bollisca il rospo,
il salotto, bianco d’inverno, molto prima delle mosche,
la cerva distesa sul muschio, molto prima della pallottola.
Mi allaccio le scarpe rosse.
Non sono mie.
Sono di mia madre.
Sua madre prima di lei
le lasciò come cimelio
ma le nascose come lettere vergognose.
La casa e la strada a cui appartengono
sono nascoste e le donne, anche le donne
sono nascoste…”

A differenza però delle donne nascoste di Anne, l’io lirico di Francesca ama la “vita puttana”. Non ne ha paura, e non ha paura di danzare!


giovedì 30 novembre 2017

La storia del mio matrimonio: ovvero ridatemi i miei 30 anni


A volte il mondo può sembrare un luogo ostile e sinistro. Ma credeteci quando diciamo che ci sono più cose buone che cattive. Dovete osservare con attenzione. E quella che magari appare una serie di sfortunati eventi, può, di fatto, essere il primo passo di un viaggio


Cosa succede quando una donna varca la soglia dei 30 anni
Ve lo dico io: puntuale come la bolletta del gas scatta l’orologino biologico. 
E se poco prima quella stessa creatura fatta di aria fresca non aveva occhi che per l’ultimo modello di scarpe, quello esposto in grande spolvero nella vetrina della boutique più costosa del centro cittadino, improvvisamente ella si accorge dell'esistenza di un mondo alternativo. Anzi, no... del "sottosopra" (chi ha visto Strange Things? Io, sì!). Un mondo fatto di passeggini colorati da un artista orbo, carrozzine accessoriate come un'auto sportiva di lusso e di pance troppo tonde per essere l'effetto di una condotta alimentare sregolata. Così passa dalle chiacchiere colle amiche e dalla minuziosa programmazione delle vacanze alle dotte disquisizioni sulle lune, l'influenza delle maree e sui giorni fertili. 
E la casa si riempie di riviste patinate, tutte ricolme di immagini di donne famose che sfoggiano, con orgoglio degno di un nobel per la biochimica, tanti pancini tondi tondi. Il cambiamento di stato ti è anche certificato dal comparire su facebook, nel riquadro in angolo, dove prima si pubblicizzava una destinazione esotica e assolata, della pubblicità dell’ultima carrozzina della nota marca per bimbi. Appena sopra alla notizia dei vantaggi impareggiabili offerti da una comoda guaina contenitiva post parto.
Insomma, non c’è più tregua. 
Tutto sembra cospirare contro di te, povera trentenne fino a quel momento rimasta ignara e felice. 
Ci si mette pure Vanity Fair, con l’articolo in cui si insegna a tornare perfettamente in forma dopo il parto. 
E il nuovo modello di donna? Ne vogliamo parlare? 
Ovvio, tutte come Amal Alamuddin (essì, la signora Clooney): più figa di prima, nonostante le due gemelle.
Quando hai un'età che varia dai trenta ai quaranta anni, rischi poi di diventare la vittima perfetta per la crudeltà di mamme, zie e cugine; le quali non sanno se compatirti o biasimarti alla notizia del tuo essere da poco tornata single.
Credetemi se vi dico che è del tutto inutile dare spiegazioni, ed è inutile raccontare loro che hai sbattuto fuori di casa lo stronzo nel momento in cui hai  scoperto nel suo telefonino la vagina spalancata e sorridente della tua vicina di casa.
Tua zia sarebbe capace di dirti che bisogna chiudere un occhio, e che gli uomini sono in fondo fatti così. E di portare pazienza, perché cambiano diventando padri.    
Voi non  ci crederete, ma quando io mi sono trovata in quella fase di età in cui la maggioranza delle donne inizia a sognare l’abito bianco (anche se il bianco mi sbatte in viso e non si intona al mio incarnato) io proprio non sapevo decidermi su quale uomo svegliare con un bacio alla mattina. Pertanto, in preda al dubbio amletico se fosse proprio necessario dividere il mio spazio vitale con un uomo, trovavo terribilmente irritante la curiosità morbosa sulla mia vita “dissipata” da parte dei parenti; così come trovavo patetici i loro tentativi di accasarmi con amici o colleghi di lavoro (una volta, addirittura, una zia acquisita insistette per presentarmi un suo amico, secondo lei adatto a me in quanto “artista e depresso”. Figuriamoci, sapeva pure leggere!).
Così, dribblando tra l’ennesimo tentativo di appuntamento al buio e le domande sempre più pressanti sul perché fossi così refrattaria ai legami seri, avevo inventato una serie di refrain di cui andavo fiera, decisamente scorretti e trasgressivi. 
La scusa migliore? 

Io e la mia compagna lesbica abbiamo in mente una maternità surrogata con sperma di un afro americano. Perché a noi piace la famiglia multietnica.

In preda allo sconforto per l’altrui mancanza di rispetto, ero giunta al punto di convincere me stessa che provavo una vera e propria repulsione per le donne gravide, ritenendo inoltre il parto una delle forme di violenza più gravi verso il corpo femminile.
Insomma. nella mia vita libera e libertina, priva di vincoli e orari, quasi apolide, ci stavo proprio bene.  Non l’avrei mai cambiata per nulla al mondo.
All’epoca, infatti, sceglievo coscientemente relazioni assolutamente a distanza, preferibilmente anche più di una in contemporanea proprio per non cadere nella trappola dell’innamoramento.
Guardate però: il mio comportamento irriverente nei confronti dell’amore era in realtà un atto di generosità verso i miei partners. Sapevo bene, infatti, di non essere tanto brava come fidanzata: troppo capricciosa, incostante nei sentimenti e terribilmente egoista. E all’anello al dito preferivo di sicuro un piercing all’ombelico. In coppia non davo il meglio di me e rischiavo sempre di scatenare guerre nelle famiglie altrui. Se uno dei miei fidanzati mi presentava ai suoi alla cena di Natale? Un disastro! Si finiva a discutere sulla fame del mondo davanti ad un trionfo di aragosta; a parlare di sfruttamento della prostituzione con uno zio attempato e single appena tornato da Cuba o del diritto dei deboli all’esproprio proletario con il suocero imprenditore. 
Due sono in particolare gli episodi scolpiti nella mia memoria, grazie ai quali ho capito che nel film Tutti assieme appassionatamente il ruolo di nuora non sarebbe mai stato mio. 
Il primo quando mi sono presentata in jeans e maglione ad una festa di fine anno in villa dove era d’obbligo l’abito lungo e l’altra quando ho litigato con il padre del mio ragazzo di allora accusandolo di  appropriazione indebita di materiali archeologici (nella vetrinetta del salotto buono, infatti, era in mostra una collezione di vasi apuli non dichiarata alla Soprintendenza).
Così, se a trent’anni avevo deciso che la fedeltà era un’imposizione borghese, e preferivo dividere l’appartamento con due ragazzi (giocando a The Dreamers di Bertolucci) prima o poi può succedere comunque di incontrare, una notte d’estate sui colli bolognesi, qualcuno più matto di te con cui sfidare il tuo personale guinness del numero di orgasmi in un giorno.
E se la sfida la vinci, ricordati che il premio previsto può essere un bonus “paghi due e prendi tre”.   
Così, all’improvviso, con una pancia che sembrava un’anguria, senza tanti preamboli o preparativi, ho deciso di convolare a nozze nel giro di 4 mesi. Non sto scherzando. L’ho fatto sul serio e pure con vestito bianco e velo (perché se si fa qualcosa di importante occorre farla bene).
E mentre lievitavo, fregandomene della linea e dei chili di troppo, mi sono ritrovata in un amen davanti ad un consigliere comunale a pronunciare il mio sì mentre le note di kalashnikof di Bregovich risuonavano alte nella sala matrimoni del Comune di Ravenna.


To be continued… 

martedì 21 novembre 2017

Un inno alla femminilità: La quarta estate


Chi tra noi donne può dirsi realmente indipendente, totalmente libera dal condizionamento esercitato dall’occhio maschile? Temo che le mani alzate sarebbero poche, ed una parte di queste forse si alzerebbe solo perché alla “sala operativa centrale” – sì, insomma, sul modello del cartoon Inside out – non è stata ben compresa la domanda.
Io quella mano non riuscirei ad alzarla, anche perché negli anni della mia infanzia l’uomo sedeva sempre a capotavola, aveva il diritto di parlare per primo ed invariabilmente mi zittiva con occhiacci ogni qualvolta aprivo bocca. Anche a causa di questa atmosfera da Albero degli zoccoli ho probabilmente cullato, pressappoco in quel tempo di nostra vita mortale che collega la prima elementare ai 10 anni, il desiderio di indossare una slanciata tonaca da suora.

Zitti, laggiù… in terza fila!

Inutile che vi diate di gomito, perché a Monza non sono davvero mai stata; e del Manzoni amavo piuttosto le descrizioni infernali del lazzaretto e della peste.

Se vogliamo poi dirla tutta, da un’eventuale mia bianchissima benda di lino non sarebbe mai fuoriuscito il ricciolo ribelle: perché, quando ci si traveste per onorare una giocosa ed allegra serata bondage, lo si fa col verso, senza trascurare i particolari e senza cadere nei tranelli dei vestiti made in China. Comunque, per tornare a noi, io mica frequentavo la chiesa di Fidenza. Non ricordo neppure di avere ricevuto i sacramenti (in famiglia non si era particolarmente devoti, e quando si partecipava ad una qualche funzione in genere – ahimé – si trattava di un funerale). Ho quindi maturato la convinzione che quella estemporanea vocazione mistica nascesse dal rifiuto per quel modello di donna: una femmina come mia nonna, religiosamente dedita alla pasta sfoglia (molto bene!) e all’improbo compito di accudire un marito capriccioso (molto male!). Non fatevi però idee sbagliate. Ho amato nonna, e l’ho sempre ritenuta una gran donna; ma non sopportavo quel suo continuo adattarsi alle regole.
Dunque non avevo predisposizione per i rosari, l’incenso e la preghiera (mentre sul cilicio ammetto di essermi in seguito abbastanza ricreduta). Ciò nonostante sono sempre stata attratta dal chiostro. Che fosse perché frequentavo la scuola elementare delle suore Canossiane? Può essere… Si trattava di un istituto a regime cattolico, non molto diversa dalla scuola raccontata da Albinati (alzi la mano chi è arrivato alla fine…, okkio che i salti di capitolo non valgono…). Avevo una maestra laica, ma molto molto molto religiosa, che iniziava la giornata in classe facendo recitare le preghiere. Nel caso fossimo state brave, non sbagliando nemmeno una parola del Credo, dell’Atto di fede, del Salve o Regina e del Magnificat, poteva anche scapparci – wow – un bel Camminerò sulla tua strada Signor (Urca, che fortuna!). Così, dopo avere rapidamente svolto il problemino di matematica ed avere altrettanto celermente declamato la poesia imparata a memoria, si poteva anche andare al cuore ludico della mattinata e raccontarci dei fioretti di San Francesco, dell’estasi di santa Teresa e della graticola di San Lorenzo. Ah, anche il punto a croce faceva parte del programma scolastico … perché nella vita non si sa mai.
Le dita punteggiate di piccoli fori arrossati testimoniano di come la sartoria non fosse nel mio destino. Ero però decisamente innamorata delle storie delle sante, soprattutto di quelle mistiche e abbonate a morti dolorosissime (Santa Lucia, Santa Agata, Santa Cristina, e pure Santa Barbara). All’epoca pensavo che queste donne m’intrigassero per la loro caparbietà, per la decisione nel difendere fino alla morte il proprio credo, senza arrendersi all’altrui volontà. Oggi ho invece la certezza che quelle vicende tanto splatter mi attiravano in realtà per la capacità di esaltare, senza alcuno schermo dato dalle convenzioni sociali, l’essenza stessa del nesso vittima/carnefice (un rapporto quasi esclusivamente declinato, guarda caso, nel senso della schiava e del padrone). E che dire del fatto che l’agiografia, nel descrivere la sofferenza, insista sempre e solo su quella vissuta dalle sante, quasi godendo del racconto di ogni più piccolo spillone conficcato nella carne? I santi invece no, perché loro non paiono soffrire ed il racconto delle torture assume invariabilmente l’asetticità di un episodio di CSI Miami. Loro, i maschi con l’aureola in capo, al massimo sono travagliati da visioni mistiche accompagnate a fastidiose stigmate; è vero, ogni tanto ce n’è uno che perde la testa, ma quella stessa protuberanza riccioluta viene subito recuperata e finisce sotto il braccio di un corpo decollato. Ed insieme passeggiano come se niente fosse. Insomma, questo era allora il mio mondo: una casa di anziani, con nonni e bisnonni a bisticciare, e le suore canossiane, rinchiuse dietro a quell’alto muro che faceva da barriera tra la strada, luogo di tremenda perdizione, ed il cortile della scuola.   
Quale la ragione dietro al riemergere dalla memoria del ricordo della mia scuola elementare?
A causa di un libro, I suppose
E questo libro è La quarta estate, di Paolo Casadio (edizioni Piemme).
Mentre lo leggevo, pagina dopo pagina, mi pareva infatti di avvertire l’odore intenso del detersivo per i pavimenti; così simile a quello che le narici colgono quando ci si avvicina ad un ospedale (oppure ad un convento).  
Il romanzo di Casadio, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, racconta l’amicizia tra le donne. Nel caso specifico le suore dalmatine, le addette al sanatorio comunale per tubercolosi ed Andrea Dalvina Zanardelli, il medico scelto dalla comunità in nero per sostituire il vecchio dottor Frega (uno che il colore nero ha amato moltissimo, al punto da impazzire credendosi Benito Mussolini). Nella piccola comunità femminile, apparentemente sospesa al di là del tempo e della tremenda guerra che infuria attorno, si incrocia un piccolo sciame di api operaie, tutte affaccendate attorno ai voleri della schietta e solida suor Oliva. Nel gineceo Dalvina trova conforto, oltre che un riparo da un mondo che, come Cronos, sta mangiando i suoi stessi figli. Ma la presenza di Dalvina, donna libera di essere femmina, sconvolge le regole consolidate dall’abitudine. Quella femminilità appena accennata, che per il fatto stesso di poter essere appare tanto perturbante, risveglia dunque i ricordi di cose taciute, i desideri repressi e le immagini non permesse. Se suor Viliana si limita ad accarezzare di nascosto i vestiti della dottoressa, come per ascoltarne fugace l’odore, altre suore si limitano a guardarla da lontano, come rapite dai suoi gesti gentili e malinconici. Vi è infine chi, sfidando il fuoco dell’inferno, decide di rivelarle tutto il suo amore. Ognuna di queste donne velate ha una storia da raccontare: c’è chi ha scelto il convento per vocazione, c’è chi invece è suora perché così ha deciso dalla famiglia, c’è chi ha trovato in quel luogo un pasto caldo e sicuro. Il sanatorio è come un’isola popolata di donne che amano restare “tra loro” e affollata di poveri bambini da salvaguardare. E Dalvina, diventata medico in un’epoca in cui alle donne non era dato essere altro che madri e mogli, appartiene in fondo a questo mondo. Il romanzo, garbato e raffinato, segue così il filo di un’apparente immobilità, tra bagni di sole, bambini scrofolosi e piccole avventure quotidiane. In un’Italia che sta per cambiare, per sempre.         


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sabato 11 novembre 2017

E' tutta una questione di stile

Siamo davvero certe che alle donne spocchiose dispiaccia l’uomo deciso e arrogante, quello cioè che non deve chiedere mai
Argomento spinoso, indubbiamente. Specie se il tuo mondo è popolato di amiche militanti e femministe, oltre che di aristocratiche signore (con cane carlino d’ordinanza, abbinato alla barca a vela ormeggiata nella darsena); tutte comunque pervase dalla stimmate della radical chic, sempre controcorrente e fieramente snob. 
Felicemente immersa tra queste amabilissime streghe ci sono io, mosca bianca per la capacità di avventurarmi in storie amorose per lo meno azzardate. 
Io, che adoro innamorarmi, incontrando – chissà poi perché? Che ci sia del dolo? – solo lupi cattivi da denti aguzzi e luccicanti.
Helen Lam
Le guardo ed un poco pure le invidio, dal momento che i loro problemi hanno spesso a che fare - invidia, invidia - con la scelta della giusta borsa di haute couture. Tuttavia, spesso tali amiche fascinose si rivolgono a me; e mi chiedono consiglio, domandandomi se sia opportuno aggiungere il focoso palestrato alla già ricca collezione di giovani amanti. In questo caso sono piuttosto ferma, invero molto spocchiosa (forse perché non ho mai amato l'idea di fungere da Amerigo Vespucci dell’ammmore). Allora rilancio, e m'informo a proposito dell’intellettuale, coetaneo e tanto carino, con cui le ho viste chiacchierare poco tempo fa. Sì, proprio quello che cita tenute e vitigni come se fossero canti della Divina Commedia... 
Di solito, nove volte su dieci, mi rendo conto di avere sbagliato il tiro: il loro viso infatti si distorce in un ghigno schifato e rivelatore. 
Allora comprendo.... 
Hanno ragione loro, perché l'esperienza ha insegnato loro a diffidare di tale prototipo di seduttore. Troppe volte sono state infatti abbandonate al momento di pagare il conto; e troppe volte sono state lasciate sole da colui che, dopo aver per l'intera serata parlato di sé e della sua opera (che non può essere esposta a New York perché un giorno l’impegnato artista ha bruciato una bandiera americana in piazza), si è improvvisamente eclissato. Hai voglia ad aspettarlo… 
Evidentemente il bel cavaliere oscuro, da mezzora asserragliato nel cesso, ha qualche problema colle ostriche di cui si è strafogato… 
Alla fine, povere penelopi esasperate, ferite dalle occhiate pettegole degli altri commensali, le mie amiche finiscono per estrarre la fedele mastercard, porgendola alla cassa colla stessa dignità con cui Maria Stuarda offriva il collo al boia.
Et voilà!
Proprio quando stanno per abbandonare al triste destino il gentile accompagnatore, evidentemente ingoiato dal pagliaccio sbucato dal tubo di scarico della toilette, eccolo ricomparire trionfante. E con il sorriso stampato in viso, a quel punto l'eroe dell'epica battaglia invariabilmente pronuncia la frase: Grazie cara, ma non dovevi; mi raccomando, però: la prossima volta tocca a me!

Applausi! Trenta minuti di ovazione in piedi!

Devo ammettere che, ascoltando tali racconti, un po’ sogghigno; perché avrò certo fatto scelte imbarazzanti, alternando maschi in eskimo ad artisti appena usciti dai centri sociali, ma su una cosa mai e poi mai ho transatto: se invito a cena qualcuno, allora pago io; se qualcuno mi propone una serata assieme, allora io sono sua ospite
Trattasi tuttavia di un falso problema, almeno per me; non mi sono cioè mai troppo interessata delle regole d’ingaggio rispetto all’azione dell’estrarre il bancomat.
L’ansia me l’ha sempre piuttosto prodotta l’aspettativa rispetto al dopocena.
E se l’affascinante mio accompagnatore si rivela un imbranato adolescente al momento di sganciare il reggiseno? Allora non c’è che una strada da percorrere: abbozzare una qualsiasi scusa e lasciare rapidamente il palcoscenico, perché il soggetto non ha evidentemente conseguito gli obiettivi minimi e deve ancora consolidare le competenze. Che si ripresenti quindi al mio cospetto solo dopo avere fatto la giusta e doverosa pratica!
Come? Non avete ben compreso il mio punto di vista?
Bene, approfondiamo allora la questione.
Nel caso si esca in amicizia – okkio, che non ci siano troppi desideri sottointesi – allora non si pone problema: essendo completamente a mio agio, mi sento libera di sparare cazzate, crogiolandomi nella proverbiale logorrea e nel turpiloquio da scaricatore di porto. La serata alcolica finirà quindi seguendo un copione rigoroso, che prevede canzoni ululate a squarciagola, imbarazzanti balletti ska o lacrimoni che riflettono le immagini di un vecchio film romantico.
Se però il dopo cena prefigura un incontro ravvicinato tra il lui di cui si diceva ed il mio completo intimo, allora state certi che diverrò più esigente della Miranda interpretata da Meryl Streep (dunque, alla larga tutti i giovani amanti inesperti; come pure i farfuglianti Woody Allen e gli aggressivi Schwarzenegger). 
Giunti al “dessert del dessert” bisogna insomma sapere “dove” e “come” mettere le mani, preferibilmente in silenzio, senza chiedere il permesso e senza ansimare che mi si vuole “aprire come una cozza”. E poi, sia chiaro: dal momento che il mio corpo non è un pezzo di carne qualsiasi (se proprio volessimo stare all’analogia gastronomica non esiterei a paragonarmi ad un gustoso filetto di manzo di kobe), ed è provvisto di molteplici zone erogene, oltretutto rivestite di costosa seta nera, allora pretendo professionalità. Quindi la passione ne suffit pas, perché occorre anche dimostrare attenzione per l’estetica dell’amplesso (il gesto deve essere cioè armonioso, gentile come un passo a due di Roberto Bolle). 
Ecco allora qualche utile consiglio, onde evitare il calo del desiderio nella donna (soprattutto nella sottoscritta):

1.  Non pronunciare mai l’orrida frase: Ma questo coso come si leva? (sappiate che l’ultimo modello del reggiseno La Perla ha l’apertura sul davanti…);
2.   Ricordare che non è necessario spogliare completamente la partner, soprattutto se questa ha superato di qualche anno la ventina (oppure, a scelta, non esibisce orgogliosa una quarta siliconata);
3.  Trattenersi dal gettarsi a capofitto sulla zona “nota”, la stessa che noi donne spocchiose curiamo come fosse un’aiuola; ogni tanto ci farebbe infatti piacere ricevere attenzioni anche al resto. Ecché diamine, esistono pure il collo, l’incavo delle braccia, le caviglie e l’interno coscia…

Piccola avvertenza finale
quando indossiamo una parigina (per i maschi meno avezzi, trattasi di una carezzevole sottoveste), vi abbiniamo sempre un perizoma oppure una mutandina brasiliana. Le stesso che, per prima cosa fate volare via sotto l’impeto del desiderio. 
Ora… per evitare che vadano perse, costringendo la vostra partner a rincasare furtivamente priva di un fondamentale indumento, si consiglia di non gettarle come viene. 
Anche perché correte anche un altro rischio… E se, rovistando al fondo del letto, tra il piumone e le lenzuola, alla disperata ricerca della mutanda perduta, si finisse per ritrovare il capetto di pizzo nero lasciato dalla precedente ospite
Non sarebbe chic; no, no, no….     
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#spocchiosamente #ilariacerioli #laperla #biancheriaintima #maquestocosocomesileva #storiediamiche #mutadinabrasiliana

        
                                     



venerdì 3 novembre 2017

Modella per un giorno. A Roma con Turi Avola ed il suo favoloso mondo

Ilaria Cerioli
In un pomeriggio di autunno, col treno sparato a mille verso Termini, percepisco le piccole rughe che segnano il mio viso. All’improvviso il mio pensiero si blocca, gelato dall’idea che potrebbe anche esistere, da qualche parte, nascosto sullo scaffale di una fascinosa profumeria, un miracoloso fondotinta. Che magari consenta di nascondere quell’orrido segno di bisturi che campeggia tronfio sul mio ventre di madre.   
Non ho più vent’anni, ripeto come una litania durante il viaggio.
Non ho forse lasciato un po’ troppo spazio a questo barlume di compiaciuta vanità? Permettendogli di correre spensierato per le assolate praterie del desiderio di vita?
Non ho più vent’anni, mi sono ripetuta poche ore fa, quand’ero ancora nella mia stanza di Ravenna, intenta a selezionare le sete ed i pizzi da sistemare con cura nella valigia.
Subito però arriva in aiuto una vocetta, dal profondo della mia pancia, che mi rassicura; e dice sicura: don’t worry baby, …hai ancora un bel volto, e pure col corpo te la cavi niente male!
Lo so, lo so… quante volte ho sentito ripetere che Anna Magnani andava fiera delle sue rughe, io però ne farei oggi volentieri a meno. Anzi no, mi correggo: io le mie rughe le odio, ad una ad una; ed ho iniziato ad odiarle fin dal momento della loro prima comparsa, quando ho virato la boa dei trenta (appena qualche giorno fa, sia ben inteso). Le odio talmente tanto da avere loro dato un nome, come si affibbia un dispregiativo epiteto al nemico che ti vuole male. Quella in mezzo alla fronte è la Bastarda, quelle che irriverenti e gemelle si accampano agli angoli delle labbra sono la Zoccola e la Maledetta. Alle zampette a baffo di gattino, che si nascondono attorno agli occhi, spetta il titolo di Grandissime Fetenti.   
Ma chi ho voluto ingannare, quando ho acconsentito a farmi fotografare? Perché qualcuno, dotato di senno e di crudeltà non mi ha fermato, ricordandomi che il ritrovarsi davanti ad un obiettivo può trasformarsi, specie per una ex belloccia, in una nemesi degna di uno sgradevole girone dell’Inferno dantesco; una vendetta malignamente ordita da parte di chi pensa che la donna matura debba necessariamente indossare un mezzo tacco e una gonna al ginocchio.
No, no, no…
Ecco che dal ricciolo che copre l’orecchio esce un diavoletto simpatico, dalla chioma perfetta e ben ornata di impeccabili extensions; un diavoletto che urla gioioso come occorra fregarsene delle preoccupazioni, perché – se dio vuole – hanno inventato photoshop! Infatti, se così non fosse, saremmo sommersi di immagini di pancette dovute a stipsi e di primi piani gommosi. Inoltre, non sto mica preparandomi a posare per Novella 2000; io, Ilaria Cerioli da Fidenza, sto per offrire il mio corpo – la mia anima no, quella è bella che andata da tempo… – all’arte raffinata di un fotografo pluripremiato. Per lui certo la bellezza canonica non conterà, perché ciò che importa è l’essere capaci di esprimere altro dalla perfezione delle forme. E poi quel che ocorre è l’essere fotogenici, e su questo punto sono sicura di potere giocare al meglio le mie carte.
Il treno è partito, e nella tratta da Bologna a Firenze riesco ancora a fingere indifferenza. Mi dico che sto scendendo a Roma soprattutto per realizzare una fantastica intervista a Turi Avola, e solo secondariamente per dare il corpo in pasto alla bestia travestita da macchina fotografica. Poi il paesaggio che scorre dal finestrino muta, e le arrotondate colline mi dicono che sono ormai a pochi chilometri dalla meta. Allora inizio una dotta conversazione col vicino, intrecciando rudimenti di fotografia e di Estetica, scivolando allegramente sui presupposti teorici e fenomenologici dell’arte… e tutto ciò – lo so benissimo, perché quando voglio sono una spietata critica di me stessa – solamente per rassicurarmi: quasi che l’intervista non mi interessasse più, perché l’intera mia anima è ora avviluppata dal terrore dell’obiettivo digitale. E comunque, se proprio non dovessi venire bene, avrò in ogni caso avuto l’occasione di conoscere un uomo intelligente e arguto, di sicuro affascinante. Il che non guasta mai... E poi quel che conta è l’intervista!
Seee… a chi la voglio raccontare?
Così l’ansia e la curiosità crescono, mentre il parallelepipedo di Termini mi sta già accogliendo.  
La valigia pesa una tonnellata, ma non è un limite. Quella valigia contiene infatti tutto quel che serve a fare di Ilaria una nuova donna: un po’ giornalista e un po’ blogger, e forse anche un po’ modella.Et voilà, sono arrivata allo studio di Turi Avola (https://turiavola.carbonmade.com/).
Turi Avola
Tutto è semplice, sia l’intervista (professionale e appassionata) che lo shooting (il giorno dopo, tra sottovesti di seta e corpetti in pizzo). Tra l’altro colgo l’occasione per girare, allegra e spensierata, per il quartiere del Pigneto, lasciandomi cullare dalla sua atmosfera bohemienne, ricordando Pasolini e celebrando la vita con un bicchiere in mano.
Mi ricordo del resto ancora quando ho scoperto le opere di Turi Avola, per caso qualche tempo prima alla Galleria Nero, dove esponeva Excessus Mentis. È stata una vera folgorazione, lo ammetto; tanto da indurmi a volere conosce l’autore. Quale ne è stato il motivo? Senza dubbio il riconoscimento di un’affinità di riferimenti culturali, perché anch’io amo il Surrealismo di Man Ray, le atmosfere allucinate di Tim Burton e l’immagine della donna sospesa tra sacro e profano, tra sensualità trasgressiva e candida innocenza. Cosa dire di più? Sono emozionata di fronte allo spettacolo dell’ossimoro, così evidente ed esasperato nella retorica visiva di Avola. Del resto sono una bilancia, coi piatti evidentemente mal tarati.   
Ma è giunta finalmente l’ora, di smettere i panni della professionale reporter per indossare quelli, lo ammetto assai più succinti, di una distratta Amélie d’inizio Novecento; di un angelo in bustier e autoreggenti, che pare aver gioisamente smarrito la strada del paradiso. Senza mostrare alcun pudore, ma lasciandomi guidare dall’esperienza dell’uomo che sa; perché posare è in fondo come fare del buon sesso: deve esserci sintonia tra fotografo e modella, per evitare che lo shooting si trasformi nella meccanica riproposizione della veloce missionaria del sabato sera. Mi rivedo adesso nello studio, seduta come Emmanuelle, ammiccante e scomposta sulla poltrone di velluto rosso, guardando con desiderio sconfinato il fotografo. Perché l’uomo dietro a quella macchina altri non è che un amante da sedurre, ammaliato dall’assoluta mia sottomissione al suo volere. Ho così giocato all’innocenza perduta, ballando a piedi nudi sulle note rosa e cremisi di Edith Piaf.  
Ma dimmi un po’, cara Cerioli, quanto ti sei divertita?
Un mondo, un mondo intero! Soprattutto quando mi sono, a poco a poco, resa conto che non esisteva più alcun confine tra la realtà e la finzione; perché in quel momento io ero solo femminilità, niente altro che pura femminilità. Così penso debba essersi sentita anche Alda Merini, quando offrì il suo corpo all’occhio meccanico di Giuliano Grittini. Orgogliosa di quel suo corpo di donna impudica, colle grosse e bianche mammelle esposte. Ricordo che molti l’accusarono di pornografia… Ma io sorrido di tanta stupidità, perché la pornografia è ben altro e nulla ha a che fare con l’esposizione fiera della propria carne sgraziata, imperfetta, eppure terribilmente vera e attraente. L’immagine di Alda, colla camicia aperta e le labbra rosse, mi ha così accompagnato e resa forte, rendendo polvere e volo di mosca il parlare malevolo di chi ha cercato di sminuirmi e di ferirmi; ha folgorato e reso cenere le voci di chi affermava che una madre, se è tale, non può farsi fotografare in autoreggenti. Come se non fosse anche una femmina. Del resto sono nata donna, e solo dopo sono diventata madre.

E se non mi sono mai preoccupata di nascondere il quadro che un giorno un’amica pittrice mi regalò, con me ritratta completamente nuda, colla mano appoggiata, lieve e fugace, appena sopra all’incavo delle cosce, non vedo il motivo per cui ora dovrei rattristarmi di essere divenuta un angelo. Per un pomeriggio, in uno studio fotografico appena fuori Roma.

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