Evolution (photo by Hikari Kesho) |
Se
l’opera di un artista si misura dall’impatto sul pubblico, allora il lavoro di Hikari Kesho – al secolo Alberto Lisi -
ha davvero colpito nel segno. Personalmente, sono stata risucchiata in un
vortice di emozioni contrastanti. In particolare mi è parso che tutte le sensazioni,
belle e terribili insieme, della maternità riaffiorassero all’improvviso con
sgarbata prepotenza. Come terribili? Terribili sì, come racconta Rossella
Milone in Cattiva; perché non per
tutte le donne la maternità rappresenta un traguardo felice. Al contrario può
essere un percorso a ostacoli, specie se l’affrontiamo da sole o non ci
sentiamo adeguate al ruolo di madre perfetta che la società impone. Sovversivo
è dunque raccontare, senza alcuna ipocrisia, ciò che da secoli viene
considerato il fine precipuo dell’esistenza femminile; e lo è soprattutto se,
per fare ciò, si adopera il linguaggio dello shibari. La teoria della composizione raggruppa quattro foto, da leggersi partendo
dalla panciuta figura femminile distesa a terra, in posizione di ponte,
appoggiata sulle mani e con la testa riversa. La lettura canonica, come viene
suggerito dal titolo dell’opera (Evolution),
prevede di partire proprio da questa prima foto. Poi, una dopo l’altra, si
procede fino all’ultima, dove, con le corde allentate e un minore numero di
giri attorno al corpo, si ritrae la donna, in piedi, animata da un
atteggiamento fiero, con lo sguardo rivolto in direzione dell’orizzonte. Eppure
i polsi sono ancora legati dietro la schiena. Cosa c’è di estremamente
disturbante nella composizione? Ancor più della cattività femminile, il fatto
che questa stessa donna sia incinta. Ho guardato e riguardato queste fotografie,
più volte, interrogandomi su quel che differente nell’interpretazione, rispetto
all’autore, può dare un occhio femminile. Quel che mi è venuto in mente è
soprattutto il desiderio di rilanciare la palla della provocazione,
domandandomi e domandandovi se si tratti di una “evoluzione” oppure di una “involuzione”.
La stessa domanda, cioè, che mi ha frullato per la testa cercando una qualche lettura
interpretativa del lavoro di Hikari. Ho
provato allora a mescolare l’ordine della sequenza, per vedere se mutava la
lettura complessiva; e sono partita
analizzando il singolo elemento, procedendo nel senso dell’individuazione
delle differenze tra le varie immagini. Ho
deciso alla fine di interpretarne il senso andando a ritroso, partendo dal
fotogramma che l’artista considera come l’ultimo della serie. Ne è scaturito un nuovo evento. E
questo perché, come sottolinea David Freedberg in The Power of Images, la risposta emotiva ad un’immagine non è
frutto del caso, ma si collega a una vera e propria grammatica tipologica universale, che induce spontaneamente una
determinata reazione alla presentazione di una codificata serie di immagini.
Ora, è innegabile che la visione di una
figura femminile nuda, imprigionata in molteplici giri di corda, evochi un pathos
dall’antico animo, quasi un archetipo
culturale. E, così facendo, finisce per apparirci abituale, dunque non
disturbante. Anche la composizione rimanda a qualcosa che ci appartiene: la
luce, che s’abbatte sul corpo in primo piano, lasciando in ombra il contesto, ci
riporta alla lezione caravaggesca; l’atmosfera
barocca della composizione, così simile ad un dipinto seicentesco, di
quelli destinati ad adornare una cappella privata, è ugualmente parte del
nostro immaginario. Lo scatto diventa quindi iconografia. Tuttavia il senso
complessivo, invertendo la sequenza delle fotografie, muta di segno e si
allontana dal percorso conosciuto: se la madre, che nella lettura originaria evoca
la liberazione dagli impacci per ergersi fiera della propria condizione, nella
mia interpretazione, frutto di una ricombinazione delle foto, passa dalla
finzione di libertà (non ha forse ancora i polsi legati?) alla drammatica
accettazione della propria condizione di prigioniera. Tutto mi ricorda la tesa
riflessione di Anne Sexton sul
rapporto delle donne con la maternità:
Io che non ero mai stata certa di essere
una bambina,
avevo bisogno di un’altra vita,
di un’altra immagine che me lo
ricordasse.
E questa fu la mia peggior colpa: tu non
potevi
curarla o alleviarla
Ti ho fatta per ritrovarmi.
Prendo
spunto quindi dalle sue parole per sottolineare la lontananza dell’odierna
condizione materna dalla visione romantica, stereotipata e idealizzata, nella
quale un po’ tutte siamo state allevate. Se ci ribelliamo all’immagine di una maternità consumistica, fatta di
passeggini alla moda e sorrisi stampati, non possiamo infatti che concordare
che la maternità è soprattutto sangue, sofferenza e sacrificio. E la donna può
resistere a tanto tormento forse proprio perché ci hanno programmato per
sublimare tanto dolore. Non si riduce alla semplice endiadi “Evoluzione” o “Liberazione”,
perché talvolta è piuttosto una involuzione
nell’autoprodotta schiavitù. Tornando alle fotografie di Hikari, credo che sia riuscito
a sintetizzare entrambe le letture: quella più facile, che racconta di una
donna capace di sottrarsi alle corde anche grazie alla forza datale dalla gravidanza,
e quella forse più disturbante, di una donna che, accostatasi con positività
alla condizione materna, con tutta l’ingenuità della giovinezza e
dell’inesperienza, si ritrova poi stretta dall’opprimente senso di
responsabilità, fissata ad un solo e unico ruolo. Almeno fino al momento in cui
troverà la forza, con dolore forse prossimo a quello del parto, di riemergere
alla vita. Dall’Evuluzione all’Involuzione, quindi, per arrivare alla Rivoluzione.
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