Ammetto di essere rimasta senza parole quando,
grazie alla segnalazione di un amico, ho scoperto l’esistenza di un articolo
del famoso psichiatra Vittorino Andreoli intitolato La psicologia di
una lavatrice. Perché tanto stupore? La ragione sta nel curioso
abbinamento tra il benemerito elettrodomestico, capace di migliorare realmente
la vita di tante donne (ho ancora nelle orecchie i racconti di mia nonna, che
era solita raccontarmi di quando il bucato si faceva usando la cenere e l’olio
di gomito, sacrificando la pelle delle mani al Dio dei ghiacci; un po’ come le
povere lavandaie descritte da Zola nell’Assomoir), e il processo di
costruzione dell’identità di genere femminile. Per farla corta, secondo
Andreoli la lavatrice è un potente simbolo di femminilità; anzi, l’insigne
psichiatra arriva a paragonare la fisiologia femminile alla forma
dell’elettrodomestico. Perché solo persone in malafede potrebbero rifiutare
l’evidente simmetria tra il cestello dei panni e l’utero della donna, e allo
stesso modo solamente gli ingenui non s’accorgerebbero del rapporto tra l’acqua
che deterge e il liquido amniotico rigeneratore di vita. Seguendo il
ragionamento anche il portello tondo ha una corrispondenza, perché da qualche
parte l’organo maschile – che appare curiosamente associato ai panni sporchi,
da mondare dai peccati attraverso l’immersione in uno nuovo – deve pure
entrare! Non contento di avere formulato l’ardita metafora, il famoso
psichiatra rincara la dose, affermando sicuro che, per tutti i motivi sopra
ricordati, le donne non possono rimanere sottilmente e piacevolmente turbate
ogni qual volta si ritrovano a tu per tu con una lavatrice. Ammetto d’essere
perplessa. Finora non aveva mai pensato alla mia lavanderia come a un luogo di
proibiti piaceri. E neppure aveva mai pensato che “fare il bucato”
corrispondesse ad un fine e appagante rituale erotico. Quindi l’immaginazione
galoppa, al punto da vedermi davanti agli occhi le immagini di un possibile
spot pubblicitario dell’Indesit o della Whirpool: non più casalinghe
affaticate, alle prese con cesti di panni maleodoranti, ma donne in
abbigliamento succinto e pieno di pizzi, impegnate ad accarezzare
l’elettrodomestico come se avessero in mano il proprio dildo. Insomma, una di
quelle pubblicità che la RAI si guarderebbe bene dal mettere in onda, se non in
orario notturno. Poi, ripensando ad Andreoli, mi viene in mente che la
prospettiva non sarebbe poi così male; almeno le signore indispettite dallo
stato comatoso del consorte, specie alla domenica, in orario partite di calcio,
saprebbero come impiegare, in modo divertente ed appagante, il proprio prezioso
tempo! Insomma, se così fosse la lavatrice potrebbe davvero divenire il simbolo
di una nuova rivoluzione sessuale. Nella realtà dei fatti l’articolo di
Andreoli mi pare piuttosto un modesto contributo, che s’inserisce però
all’interno di un processo molto più imponente e preoccupante, che vorrebbe
convincere le donne della “naturalità” del ricercare appagamento per i propri
desideri sempre e solo all’interno della dimensione familiare e domestica.
Anche per questo motivo stride il suo appello alle principali industrie del
settore, affinché progettino modelli che tengano conto delle esigenze femminili
durante l’atto della masturbazione. Se voleva essere una frase ironica manca
totalmente il bersaglio, molto meglio sarebbe stato allora appellarsi – e chi
s’intende un po’ di bondage ha già capito a cosa mi
riferisco – alle case produttrici di mollette per il bucato! Esiste però un
modo per farci beffe del progetto reazionario in atto, care amiche; ed è quello
di precipitarci in lavanderia – quella del vicino di casa carino, oppure quella
a gettoni sotto casa – e, tra un giro di manopola e qualche ciclo con
centrifuga, liberare la nostra sensualità al ritmo di You can leave
your hat on. Vuoi non mettere poi un prelavaggio? Un preliminare da urlo
assicurato.
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