Consigli per una vita di coppia felice e per una singlitudine serena, senza troppi sensi di colpa.

martedì 12 dicembre 2017

Il surrealismo di Francesca Viola Mazzoni

Lei non poteva distrarsi un attimo
Che subito si scordava di se stessa (da Rogo sublime)

Versi in bilico tra Sogno di una notte di mezza estate, per l’estrema e sognante leggerezza, e, per l’indubbio e crudo realismo, la scena iniziale di Salvate il soldato Ryan. Versi che sono il frutto di un’indomita personalità. Perché Francesca Mazzoni è così: o la sia ama follemente, oppure la si detesta; e non c’è spazio per l’indecisione, per quel limbo in cui cadono troppo spesso i rapporti umani inquinati dalle convenzioni e il savoir faire.
Nulla qui è scontato. Né l’ambientazione, tra il fiabesco e l’onirico, né le metafore, forti, tutte giocate sul registro del contrasto insistito.  
Un lessico marcato, espressionistico e ricco di citazioni colte, date in moglie ad una lingua viva, intessuta di riferimenti alla quotidiana colloquialità, racconta così la formazione di una giovane donna. E se fosse un romanzo? Ovvio sarebbe un bildungsroman, al femminile; oppure un racconto di viaggio, che descrive la non facile passeggiata di una donna alla ricerca di quel che è veramente. Sempre in attesa che il concentrato di energia pura deflagri, investendo chi le sta accanto; ed indecisa se rivendicare il “diritto di volare via o supplicare chi di dovere di farla restare”.
Se lei del resto si definisce un ossimoro, per me si tratta invece di una anastrofe; un’inversione vera di tendenza: uno sconvolgimento delle regole che, nonostante le apparenze, non è semplice anarchia, quanto ricerca di nuove norme.
Per molti aspetti lo stile di Francesca ricorda quello delle poetesse del Surrealismo, cioè di quell’indecoroso e coraggioso spezzare gli schemi, fregandosene delle regole imposte da una bacucca retorica che sa di stantio. I versi di Francesca sono spezzati e concitati, ansiosi come se volessero saltar fuori dal foglio. E le parole prendono vita, come rocce che franano sugli ascoltatori-lettori. Come una cascata, come una colata di lava gelida.
Molti sono pure i punti di contato tra Francesca e Leonor Carringhton, la celeberrima compagna di Max Ernst. Entrambe infatti non si limitano a mettere su carta parole poetiche, ma costruiscono veri e propri racconti. Non una narrazione, ampia, ariosa e fluente, bensì una trasposizione in versi della storia del proprio inconscio: nei loro scritti si trovano i sogni. Non si trova l’Io, bensì tutta l’incandescenza dell’ES.
Nel lavoro di Francesca non si parla di una donna, ma di creature magiche: una fata sdentata e una funambola filosofa. Di creature fatte “della stessa sostanza dei sogni”, di animali e di insetti inconsueti, e di fiori d’altri tempi. Belle e profumate camelie.
Come per Leonora Carringhton anche per Francesca l’atmosfera entro cui si muovono le donne bambine-vecchie è quella onirica, rarefatta perché immersa in un paesaggio deforme, dai contorni fatti di perdono, “slabrati” come cicatrici mai risolte. Così, infatti nella Cinciallegra sul rogo non nasconde una nota simbolista con l’accostamento di realtà e immagini totalmente distanti

 
Prossima volta sii delicata
sii fiera e sfacciata
spacciati cagna orgogliosa del morso
fingiti cicala mai zittita dal tuono.
So che
hai il vizio di pensarmi
sbracata e ferita.
tu dipingimi sempre
in nero di schianto.  



A prima vista si tratta di un mondo regolato dalla legge ferrea del caos, in realtà in questo caleidoscopio di colori e immagini ci si rende presto conto presto che la fune sospesa in aria percorso dal piede della piccola funambola altro non è che il trait-d’union tra razionalità ed emozioni. A ben guardare, altro non è che la lucida follia di chi ha rinunciato ad opporsi alla vita ed ha scelto di percorrere il sentiero del bosco lastricato di mattoni gialli piuttosto che sfidare l’ignoto.
Insomma l’io lirico che emerge dalle opere di Francesca è ribelle e vivace, sempre in attesa curiosa dei futuri cambiamenti; contemporaneamente è però anche un io ferito, fragile tanto quanto è seduttore ed egocentrico, indifeso e bisognoso di essere amato.
Così, trepidante, vuole proseguire il viaggio, e ci chiede lasciarlo andare come in Rogo sublime (dove i versi sono dedicati alle amiche, quasi montaliani angeli salvifici)
Mi arrogo il diritto di volar via.
Chiedo il permesso di rinunciare all’appoggio.
Pretendo un bivio una rete un’uscita di sicurezza.
Supplico chi di dovere di farmi restare.
Altri temi evidenti sono quelli dell’amore e della sessualità. Ma trattati con la sensibilità propria di un occhio e di un cuore femminile. 
Una quarta di erotismo, schiaffato in viso senza chiedere permesso, con parole crude, e tuttavia senza mai scadere nella volgarità.
Per certe immagini pare ricordare alcune quartine di Patrizia Valduga, come in i tuoi polsi

I tuoi polsi mannaia e inno celeste
I tuoi polsi benedizione e scudiscio
Mettimeli addosso
Ora che sono così sola
Che chiamo per nome il silenzio

Per entrambe l’amore è un legame stretto, tra osceno e sacro, un atto di forza in cui ci si deve perdere se si vuole davvero avvertire la presenza dell’altro (oltre che di se stesse; Patrizia Valduga dice “fa’ presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al tuo letto” (cento quartine).
Se i filtri sono banditi e la censura “censurata”, allora l’amore è esibito. Anche nella sua fisicità “in carezze distratte e abbracci mozzicati”. Spesso è un amore doloroso, di quelli che fanno guerra al cuore. Così quando Francesca indossa scarpe color pervinca

Quando ci rincontreremo,
chiamami forte.
Sarò fonte sarò tregua e resa.
Sarò nelle pieghe del muro su cui si arrampica il rovo,
tra le mani che reggono la camelia fiorita fuori stagione.
Sarò tra gli interstizi minuscoli sotto le unghie tagliate di fresco.
(Quando sentì il suo nome urlato da dietro, pensò di voltarsi ma non era vecchia da poco e per niente.Affrettò il passo dentro le scarpine di camoscio usurato coi bordi pervinca..), noi non possiamo non ripensare a Scarpette rosse di Anne Sexton
Abito nel cerchio
della città morta
e mi allaccio le scarpe rosse.
Tutto ciò che era calmo
è mio, l’orologio con la formica,
le dita dei piedi, allineate come cani,
il fornello, molto prima che bollisca il rospo,
il salotto, bianco d’inverno, molto prima delle mosche,
la cerva distesa sul muschio, molto prima della pallottola.
Mi allaccio le scarpe rosse.
Non sono mie.
Sono di mia madre.
Sua madre prima di lei
le lasciò come cimelio
ma le nascose come lettere vergognose.
La casa e la strada a cui appartengono
sono nascoste e le donne, anche le donne
sono nascoste…”

A differenza però delle donne nascoste di Anne, l’io lirico di Francesca ama la “vita puttana”. Non ne ha paura, e non ha paura di danzare!


1 commento:

  1. La verità è una potente puttana...che ti sbatte come piace a te.
    Belle queste poesie, sincerità liberata.

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