Lei non poteva distrarsi
un attimo
Che subito si scordava di
se stessa (da Rogo
sublime)
Versi
in bilico tra Sogno di una notte di mezza
estate, per l’estrema e sognante leggerezza, e, per l’indubbio e crudo realismo,
la scena iniziale di Salvate il soldato Ryan.
Versi che sono il frutto di un’indomita personalità. Perché Francesca Mazzoni è
così: o la sia ama follemente, oppure la si detesta; e non c’è spazio per
l’indecisione, per quel limbo in cui cadono troppo spesso i rapporti umani
inquinati dalle convenzioni e il savoir
faire.
Nulla
qui è scontato. Né l’ambientazione, tra il fiabesco e l’onirico, né le metafore,
forti, tutte giocate sul registro del contrasto insistito.
Un
lessico marcato, espressionistico e ricco di citazioni colte, date in moglie ad
una lingua viva, intessuta di riferimenti alla quotidiana colloquialità,
racconta così la formazione di una giovane donna. E se fosse un romanzo? Ovvio sarebbe
un bildungsroman, al femminile;
oppure un racconto di viaggio, che descrive la non facile passeggiata di una
donna alla ricerca di quel che è veramente. Sempre in attesa che il concentrato
di energia pura deflagri, investendo chi le sta accanto; ed indecisa se
rivendicare il “diritto di volare via o supplicare chi di dovere di farla
restare”.
Se
lei del resto si definisce un ossimoro, per me si tratta invece di una anastrofe;
un’inversione vera di tendenza: uno sconvolgimento delle regole che, nonostante
le apparenze, non è semplice anarchia, quanto ricerca di nuove norme.
Per
molti aspetti lo stile di Francesca ricorda quello delle poetesse del
Surrealismo, cioè di quell’indecoroso e coraggioso spezzare gli schemi,
fregandosene delle regole imposte da una bacucca retorica che sa di stantio. I
versi di Francesca sono spezzati e concitati, ansiosi come se volessero saltar
fuori dal foglio. E le parole prendono vita, come rocce che franano sugli
ascoltatori-lettori. Come una cascata, come una colata di lava gelida.
Molti
sono pure i punti di contato tra Francesca e Leonor Carringhton, la celeberrima
compagna di Max Ernst. Entrambe infatti non si limitano a mettere su carta
parole poetiche, ma costruiscono veri e propri racconti. Non una narrazione,
ampia, ariosa e fluente, bensì una trasposizione in versi della storia del
proprio inconscio: nei loro scritti si trovano i sogni. Non si trova l’Io,
bensì tutta l’incandescenza dell’ES.
Nel
lavoro di Francesca non si parla di una donna, ma di creature magiche: una fata
sdentata e una funambola filosofa. Di creature fatte “della stessa sostanza dei
sogni”, di animali e di insetti inconsueti, e di fiori d’altri tempi. Belle e
profumate camelie.
Come
per Leonora Carringhton anche per Francesca l’atmosfera entro cui si muovono le
donne bambine-vecchie è quella onirica, rarefatta perché immersa in un
paesaggio deforme, dai contorni fatti di perdono, “slabrati” come cicatrici mai
risolte. Così, infatti nella Cinciallegra
sul rogo non nasconde una nota simbolista con l’accostamento di realtà e
immagini totalmente distanti
Prossima
volta sii delicata
sii
fiera e sfacciata
spacciati
cagna orgogliosa del morso
fingiti
cicala mai zittita dal tuono.
So
che
hai
il vizio di pensarmi
sbracata
e ferita.
tu
dipingimi sempre
in nero di schianto.
A
prima vista si tratta di un mondo regolato dalla legge ferrea del caos, in
realtà in questo caleidoscopio di colori e immagini ci si rende presto conto
presto che la fune sospesa in aria percorso dal piede della piccola funambola altro
non è che il trait-d’union tra
razionalità ed emozioni. A ben guardare, altro non è che la lucida follia di
chi ha rinunciato ad opporsi alla vita ed ha scelto di percorrere il sentiero
del bosco lastricato di mattoni gialli piuttosto che sfidare l’ignoto.
Insomma
l’io lirico che emerge dalle opere
di Francesca è ribelle e vivace, sempre in attesa curiosa dei futuri cambiamenti;
contemporaneamente è però anche un io ferito,
fragile tanto quanto è seduttore ed egocentrico, indifeso e bisognoso di essere
amato.
Così,
trepidante, vuole proseguire il viaggio, e ci chiede lasciarlo andare come in Rogo sublime (dove i versi sono dedicati
alle amiche, quasi montaliani angeli salvifici)
Mi arrogo il diritto di
volar via.
Chiedo il permesso di
rinunciare all’appoggio.
Pretendo un bivio una rete
un’uscita di sicurezza.
Supplico chi di dovere di farmi restare.
Altri
temi evidenti sono quelli dell’amore e della sessualità. Ma trattati con la
sensibilità propria di un occhio e di un cuore femminile.
Una quarta di
erotismo, schiaffato in viso senza chiedere permesso, con parole crude, e
tuttavia senza mai scadere nella volgarità.
I tuoi polsi mannaia e
inno celeste
I tuoi polsi benedizione e
scudiscio
Mettimeli addosso
Ora che sono così sola
Che chiamo per nome il
silenzio
Per entrambe l’amore
è un legame stretto, tra osceno e sacro, un atto di forza in cui ci si deve perdere
se si vuole davvero avvertire la presenza dell’altro (oltre che di se stesse; Patrizia
Valduga dice “fa’ presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al
tuo letto” (cento quartine).
Se i filtri sono banditi e la censura
“censurata”, allora l’amore è esibito. Anche nella sua fisicità “in carezze
distratte e abbracci mozzicati”. Spesso è un amore
doloroso, di quelli che fanno guerra al cuore. Così quando
Francesca indossa “scarpe color pervinca”
Quando ci
rincontreremo,
chiamami
forte.
Sarò fonte
sarò tregua e resa.
Sarò nelle
pieghe del muro su cui si arrampica il rovo,
tra le mani
che reggono la camelia fiorita fuori stagione.
Sarò tra
gli interstizi minuscoli sotto le unghie tagliate di fresco.
(Quando sentì il suo nome urlato da dietro, pensò di voltarsi ma
non era vecchia da poco e per niente.Affrettò il passo dentro le scarpine di
camoscio usurato coi bordi pervinca..), noi non possiamo non ripensare a Scarpette rosse di Anne Sexton
Abito nel
cerchio
della città morta
e mi allaccio le scarpe rosse.
Tutto ciò che era calmo
è mio, l’orologio con la formica,
le dita dei piedi, allineate come cani,
il fornello, molto prima che bollisca il rospo,
il salotto, bianco d’inverno, molto prima delle mosche,
la cerva distesa sul muschio, molto prima della pallottola.
Mi allaccio le scarpe rosse.
della città morta
e mi allaccio le scarpe rosse.
Tutto ciò che era calmo
è mio, l’orologio con la formica,
le dita dei piedi, allineate come cani,
il fornello, molto prima che bollisca il rospo,
il salotto, bianco d’inverno, molto prima delle mosche,
la cerva distesa sul muschio, molto prima della pallottola.
Mi allaccio le scarpe rosse.
Non sono
mie.
Sono di mia madre.
Sua madre prima di lei
le lasciò come cimelio
ma le nascose come lettere vergognose.
La casa e la strada a cui appartengono
sono nascoste e le donne, anche le donne
sono nascoste…”
Sono di mia madre.
Sua madre prima di lei
le lasciò come cimelio
ma le nascose come lettere vergognose.
La casa e la strada a cui appartengono
sono nascoste e le donne, anche le donne
sono nascoste…”
A differenza però delle donne nascoste di Anne,
l’io lirico di Francesca ama la “vita puttana”. Non ne ha paura, e non ha paura
di danzare!
La verità è una potente puttana...che ti sbatte come piace a te.
RispondiEliminaBelle queste poesie, sincerità liberata.